# 356 – Luis Buñuel – DEI MIEI SOSPIRI ESTREMI (SE, 1997, ediz. orig. 1981, pagg. 280)
Ormai anziano, ritiratosi dall’attività cinematografica, il grande regista spagnolo Luis Buñuel (1900 -1983) scrive della sua vita, la suddivide diligentemente in capitoli e racconta di amori e amicizie, di correnti artistiche e critiche, di cinema e di inventiva, riflettendo tanto sul curioso mestiere che si è trovato a fare, con un certo successo (vinse il premio Oscar per il miglior film straniero nel 1973 con “Il fascino discreto della borghesia”) pur senza mai scendere a compromessi: il suo cinema, sospeso tra surrealismo e onirismo, è da molti giudicato ostico, ma anche trascinante e affabulatorio, proprio com’era lui, Buñuel, uomo poliedrico ed enigmatico, che detestava viaggiare fisicamente ma adorava farlo con la mente, col pensiero. E allora, ogni capitolo è un viaggio, ogni aneddoto nasconde – e svela – un mondo, ogni frase è potenzialmente una massima sull’esistenza e sul senso della vita e, soprattutto, dell’arte.
Checché ne pensino i più, il minimo comun denominatore tra la scrittura e il cinema di Luis Buñuel è la semplicità. Per quanto molti suoi film siano giudicati strani ed enigmatici, bizzarri e oniricheggianti, la verità è che essi sono, in realtà, piuttosto semplici.
A essere complicati e a volte indecifrabili, casomai, sono i possibili significati dietro l’opera di uno dei più grandi registi europei del Novecento, amico di Dalì e Garcia Lorca, nato e cresciuto nell’alveo del Surrealismo e approdato, col tempo, a una maturità espressiva tale da consentirgli di infrangere alcune delle più basilari e radicate regole dell’espressione cinematografica, come per esempio la ripartizione del medesimo ruolo tra due attrici diversissime tra loro (“Quell’oscuro oggetto del desiderio”, 1977).
Scritta nel 1981, quando aveva ormai smesso di dirigere film, questa originale autobiografia si presenta proprio come l’atto finale – consapevole – di una carriera straordinaria e di un’esperienza umana ricchissima, non solo nell’ambito del cinema ma, più in generale, dell’arte e della cultura. Buñuel sapeva di non avere più, davanti a sé, molto tempo, e dà l’impressione di avere scritto il libro con serenità e distacco, pronto al congedo definitivo ma ancora desideroso di dire la sua, di lasciare un racconto semplice e fededegno di ciò che più gli stava a cuore: non l’autocelebrazione, beninteso, quanto piuttosto la rievocazione diretta e immediata di figure, episodi, snodi di vita, decisioni prese o non prese, gusti personali e altrettanto personali ripulse.
“Un chien andalou” (1929) “L’Age d’Or” (1930)
Non che il libro non sia attentamente meditato; il pensiero retrostante, però, non frena e non irreggimenta troppo un’opera ultima che resta immediata e delicata, sorridente e disillusa perché – come ebbe a dire Marcello Mastroianni – “il cinema non è poi gran cosa”, e Luis Buñuel sembra sposare appieno questa affermazione e darle corpo in un’autobiografia che non carica eccessivamente di significati l’opera dell’Autore ma che, anzi, spiega come certe decisioni successivamente ritenute geniali e germinali siano state prese… grazie a un paio di Martini Dry!
Si sorride spesso leggendo “Dei miei sospiri estremi” e, questo sì, ci si rammarica che Buñuel non sia più tra noi e non possa più contribuire con la sua intelligenza e con la sua arguzia a un mondo contemporaneo che di entrambe avrebbe un gran bisogno, stritolato com’è tra le fauci del politicamente corretto e dell’abbrutimento linguistico e visivo (per il quale i social network non sono esenti da colpe); si sorride spesso e ci si abbandona a un dolce sognare, a una grammatica narrativa piana e levigata che, a tratti, “impazzisce” e regala squarci onirici e visioni originali e fulminanti, quasi delle rivelazioni che, da un personaggio di tale caratura intellettuale e artistica, se ben recepite, svelano lo scopo per il quale questo tipo di libri vengono scritti e (per fortuna) pubblicati: far sentire meno solo chi, dopotutto, ha nostalgia di un certo mondo, di un certo cinema, di una certa cultura.

(Recensione scritta ascoltando The Smiths, “There Is a Light That Never Goes Out”)
PREGI:
una scrittura senza fronzoli, immediata, pensata per farsi capire, senza complicazioni inutili e senza ambizioni smisurate. Buñuel racconta e si racconta, nel vero senso del termine, con una ammirevole semplicità che cela, ovviamente, punti di grande profondità e significato
“L’angelo sterminatore” (1962) “Il fantasma della libertà” (1974)
DIFETTI:
come per tutte le autobiografie, servono un certo interesse per la figura dell’Autore-protagonista e, in questo caso specifico, anche per il mondo del cinema e dell’arte, in assenza dei quali la lettura risulterebbe fatalmente poco interessante
“Il fascino discreto della borghesia” (1972) “Bella di giorno” (1967)
CITAZIONE:
“Credo che il cinema eserciti sugli spettatori un certo potere ipnotico. […] L’ipnosi cinematografica, leggera e inconscia, è dovuta probabilmente al buio della sala, ma anche ai mutamenti di piani, di luci e ai movimenti della macchina da presa, che indeboliscono l’intelligenza critica dello spettatore, esercitando su di lui una specie d’incantamento, come uno stupro.” (pagg. 78-79)
GIUDIZIO SINTETICO: ***
LEGENDA RECENSIONI
Sia per i libri che per i film, adotto nel giudizio sintetico il sistema Mereghetti, che va da 0 a 4 stelline: a 0, ovviamente, i giudizi più negativi, a 4 quelli più positivi, con tutti i possibili gradi intermedi…