# 134 – Eve Ensler – I MONOLOGHI DELLA VAGINA (Il Saggiatore, 2008, ediz. orig. 1996, pagg. 218)
Una trentina di monologhi incentrati sulla vagina: dalle simil-poesie (“Ditelo”, “La treccia storta”, “Sotto il burqa”, “Il ricordo della sua faccia”) ai testi più squisitamente prosaici (“Il laboratorio della vagina”, “L’inondazione”, “La donna che amava far felici le vagine”, solo per citarne alcuni), intervallati da brevi riflessioni dell’Autrice dedicate – indovinate un po’? – alla vagina. Insomma, un profluvio di vagine e vagiti, una serie monotona di monologhi monotematici, una teoria di donne che vanno dalla gravemente nevrotica alla piena di sé, dalla dubbiosa alla traumatizzata, dall’illuminata all’ingenua, ma tutte caratterizzate – a quanto pare – da una gran voglia di parlare della propria vagina.
Beh, che dire? Contente voi…! Io, onestamente, non passo molto tempo a parlare del mio pisello, anzi, si può dire che non ne parlo proprio, poiché (sarà colpa mia) non lo considero un argomento, diciamo, sufficientemente affascinante. Una battuta ogni tanto ci può stare, va bene; una freddura, qualche volta, perché no? Una di quelle affermazioni da “bar dello sport”, okay, non la si nega a nessuno, di tanto in tanto. Ma certo non mi sarebbe mai venuto in mente di dedicare (perdonate la franchezza) un serie di monologhi all’uccello.
A Eve Ensler invece è venuto in mente di farlo per la vagina, e ha riscosso un successo planetario, il che perlomeno la mette al sicuro da ogni tipo di critica, ivi compresa questa mia, della quale non potrà importarle un fico secco. Ma io la scrivo lo stesso, perché adoro scrivere e adoro spiegare anche i motivi per i quali un libro proprio non mi è piaciuto (è una questione di rispetto: anche a chi ho detestato amo spiegare i perché e i percome). Anzitutto: è lecito che io recensisca “I monologhi della vagina” che, fino a prova contraria, è un’opera teatrale e non narrativa? No, in effetti non dovrei recensirla, ma lo faccio ugualmente per chiudere un conto: quello col femminismo militante e becero, che prima o poi dovrà rassegnarsi a fare i conti con la propria stessa inutilità. Perché suvvia, mi dite cosa ci guadagnano le donne stesse da un libro (o da uno spettacolo, si vous preferez) come “I monologhi della vagina”? Cosa ve ne viene in tasca da questo sbrodolamento vaginale che oscilla tra l’appena discreto (ad esempio, “La mia vagina era il mio villaggio”) e l’oggettivamente imbarazzante (non ci credete? Provate a leggere “Ho chiesto a una bambina di sei anni” e deliziatevi con chicche tipo “Se la tua vagina si vestisse che cosa indosserebbe?” Risposta della presunta bambina di sei anni: “Scarpe alte rosse e un berretto da baseball al contrario”)?
I gusti sono gusti, ci mancherebbe, ma un libro (e uno spettacolo) come questo poteva andare forse – e sottolineo il “forse” – negli anni ’50 o ’60, spingiamoci anche ai turbolenti anni ’70! Ma non nel 1996! Negli anni ’90, un libro come questo non è altro che (permettetemi di citare Fantozzi) “una cagata pazzesca”! Fuori tempo massimo per intraprendere le vere lotte femministe (quelle meritevoli), il libro combatte una battaglia già vinta, contro un esercito inesistente, che non può che alzare le spalle e replicare: volete parlare della passera? E fatelo, chi vi dice niente! Però non presentatela come “attività eversiva”, perché è così solo nella testa di certune che, forse, non si rassegnano al passare del tempo e vorrebbero essere ancora nel mondo che impediva loro di portare la minigonna o di mostrare le tette, cose che oggidì – francamente – può fare chi vuole e quando vuole.
Le battaglie per la parità nell’ambito economico e lavorativo sono un’altra cosa, ben più seria, e non esito a schierarmi in favore di chi le combatte, perché sono il primo a dire che è una tremenda ingiustizia che ci siano aziende che non assumono donne in una certa fascia d’età perché potrebbero restare incinte, e rappresentare così un aggravio di costi per l’azienda stessa; sono il primo a sostenere che la forbice nei guadagni tra uomini e donne andrebbe limata sino a farla scomparire. Ma non capisco, proprio non capisco l’utilità – e la bontà letteraria – di un testo come “I monologhi della vagina”: noioso, ripetitivo, falsamente osceno (volete l’oscenità vera? Abbiate il coraggio di leggere Bukowski, grande amatore delle donne, o Pierre Louys, se preferite una letteratura più datata, o De Sade, se avete voglia di incazzarvi), vuotamente provocatorio e, per giunta, talmente futile da strappare risate a scena aperta, questo testo non solo non rende giustizia alle donne, ma rappresenta un clamoroso autogol per il femminismo stesso e i suoi “V-Day” (lascio a voi immaginare per cosa stia la “V”: non è difficile). C’è veramente bisogno di Eve Ensler e dei suoi bamboleggianti e ridicoli monologhi? Non è meglio amare le donne e il loro intelletto leggendo Virginia Woolf, Jane Austen, Emily Dickinson, Edith Wharton, Doris Lessing, Christa Wolf e, vivaddio, Saffo?! Non vi bastano? E allora beccatevi Eve Ensler!
(Recensione scritta ascoltando Roberto Vecchioni, “Voglio una donna”)
PREGI:
nessuno in particolare, anche se va ammesso che i testi che compongono l’opera sono diseguali, alcuni obiettivamente sono meglio di altri. Troppo poco per salvare l’opera nel suo complesso, ma fortunatamente qui e là emerge qualche testo al quale perlomeno si può riconoscere una sia pur blanda raison d’être
DIFETTI:
pretenzioso e a tratti francamente ridicolo, è un libro fuori tempo massimo che, a voler essere generosi, può dire la sua come spettacolo teatrale, perché almeno intervengono, a interpretare i testi, il lavoro e la mediazione delle attrici. In sede di lettura, però, poche cose mi sono parse più futili e irritanti
CITAZIONE:
“La mia vagina mi ha lasciato stupefatta. Non riuscivo a parlare quando è venuto il mio turno. Ero ammutolita. Avevo aperto gli occhi su ciò che la coordinatrice del laboratorio chiamava «stupore vaginale». Volevo solo starmene lì distesa sul mio tappetino, con le gambe aperte, a esaminare la mia vagina per sempre.” (pag. 65)
GIUDIZIO SINTETICO: °
LEGENDA RECENSIONI
Sia per i libri che per i film, adotto nel giudizio sintetico il “sistema Mereghetti”, che va da 0 a 4 “stelline”: a 0, ovviamente, i giudizi più negativi, a 4 quelli più positivi, con tutti i possibili gradi intermedi…