HERZOG INCONTRA GORBACIOV di Werner Herzog e André Singer (GB, GER, USA, 2018 – 100’)
C’è un momento, in “Herzog incontra Gorbaciov”, che ho adorato e che mi ha fatto capire (se ce ne fosse stato bisogno) che si trattava proprio di un film di Werner Herzog: Gorbaciov sta parlando, seduto davanti a Werner che lo ascolta, e ad un certo punto si perde il fuoco. Il vecchio Presidente va completamente fuori fuoco, mentre ancora sta parlando: dura appena un paio di secondi, massimo tre, poi l’operatore rimette a fuoco e la scena, senza tagli, continua. Per chiunque, questa sarebbe un’imperfezione: la scena andrebbe rifatta oppure, come minimo, si interverrebbe in montaggio, inserendo una “copertura” o un controcampo sull’intervistatore, per tagliare l’imbarazzante momento in cui il fuoco va a ramengo. Invece Herzog lascia la scena così com’è, e proprio in questo sta la forza del suo cinema, anche oggi che non è più un ragazzo, anche oggi che non gira più i suoi film titanici nella foresta amazzonica o sulle cime della Patagonia. Perché questa imperfezione ci apre tutta la verità di questo film, tutta la passione e la voglia di raccontare (e ascoltare) un personaggio come ce ne sono pochi, anzi, un personaggio unico: Michail Gorbaciov, l’ultimo Segretario del Partito Comunista Sovietico, il PCUS.
Seguo Werner Herzog sin da quando avevo quattordici anni, ed ero appassionato di cinema tedesco. Allora, consideravo Herzog la “punta di diamante” del trio composto da lui con Rainer Werner Fassbinder e Wim Wenders (mentre Edgar Reitz era… beh, un “fuoriclasse” senza categoria!) Il cinema di Herzog, così contemplativo e diverso da tutto – e sottolineo tutto! – il cinema coevo, tedesco e non, mi conquistò completamente, con titoli come “Aguirre, furore di Dio”, “L’enigma di Kaspar Hauser”, “Fitzcarraldo” ma anche i più modesti e atipici “La grande estasi dell’intagliatore Steiner” e “Il Paese del silenzio e dell’oscurità”, documentari straordinari per profondità e stile.
Bene, “Herzog incontra Gorbaciov” va ascritto proprio a questa categoria: documentario classicheggiante nello stile ma fiammeggiante nei contenuti, lunga conversazione condotta dal regista stesso con uno dei più grandi statisti del ‘900, l’ultimo superstite di una stagione ormai tramontata, quella della Guerra Fredda USA-URSS, e supportato da immagini d’archivio ben selezionate e, soprattutto, ben dosate. Adorato in Occidente e in particolare in Germania, di cui ha decisamente favorito la riunificazione nel 1989, Gorbaciov è invece tutt’oggi considerato un traditore da molti russi; liquidatore, suo malgrado, del PCUS e dell’Unione Sovietica, il vecchio Segretario non è descritto da Herzog, bensì è lasciato parlare, è guardato con rispetto dalla macchina da presa, con tutti i suoi senili tentennamenti ai quali fa da contraltare, però, una evidente lucidità di pensiero, nonostante le 87 primavere suonate (il film è stato girato nel 2018, oggi Gorbaciov va invece per gli 89!).
Impossibile per chi, come me, ha vissuto da adolescente gli anni ’80, non commuoversi davanti alle immagini dell’incontro con Reagan a Reykjavik, o a quelle – drammatiche – dell’incidente di Chernobyl, che non solo ricordo perfettamente, ma al quale ho addirittura dedicato un libro. Insomma, in Gorbaciov – in particolare per chi appartiene alla mia generazione – si concentra tutto un mondo, un’intera epoca iscritta nelle rughe di quel volto appesantito, riconoscibile quasi solo per via della celebre “voglia” sulla fronte; e Werner Herzog (con André Singer) è bravissimo a farsi da parte e lasciar raccontare quegli anni da chi li ha vissuti da protagonista assoluto, da chi si è trovato (e il paragone che mi viene in mente è, fatalmente, con Carlo I d’Asburgo-Lorena) alle prese con lo sgradevole compito di sancire la fine di un’epoca – e che epoca! Perché parliamoci chiaro: non c’erano perestrojka o glasnost che tenessero, il mondo sovietico era al collasso, e Gorbaciov non ha potuto far altro che accompagnarlo alla fine, col merito – a mio avviso – di aver evitato spargimenti di sangue e orrori da fine di un regime. Su quello che è accaduto dopo, Herzog preferisce lasciar calare un velo: Eltsin prima, e Putin poi, sembrano aver in un certo senso salvato il peggio dei due mondi, quello comunista da una parte e quello capitalista dall’altra, ma questo non interessa a Herzog: la sua macchina da presa resta fino alla fine puntata sul volto del vecchio statista, a volerne registrare ogni parola, ogni espressione, fino alla bellissima recita finale di una poesia di Lermontov, perché Herzog è consapevole che con l’uscita di scena di Gorbaciov quell’epoca tramonterà davvero e definitivamente, e allora il suo film – questa sua conversazione – assume un’importanza ancora maggiore, come documento estremo – vero e proprio testamento – di uno statista che ha cambiato il mondo anche al di là delle sue intenzioni, che si è trovato immerso in forze troppo più grandi non solo di lui, ma di chiunque, e che ha finito per soccombere.
Un film semplice, girato senza fronzoli, in puro stile herzoghiano, senza pasticci ed effettacci, senza tutte quelle cose che mi fanno detestare tanto cinema contemporaneo; un film che è la sua stessa materia, che non ha bisogno di vezzi o abbellimenti. Un cinema che crede ancora nei contenuti, che vuole essere – ancora – prima di tutto importante.
GIUDIZIO SINTETICO: ***½