# 89 – Philip Roth – LA MACCHIA UMANA (Einaudi, 2001, pagg. 386)
La vita regolare e tranquilla del pacato e colto professor Coleman Silk viene sconvolta da un giorno all’altro a causa di un’unica parola che il professore, durante una lezione, rivolge a una coppia di studenti di colore, una parola in sé ironica e innocente, che però il mondo del “politicamente corretto” non gli perdona. Abbandonato da tutti tranne che dall’amico scrittore Nathan Zuckerman e dalla donna delle pulizie Faunia, con la quale avvia una tanto sperequata quanto passionale relazione, Silk si trova anche a fare i conti con un incredibile segreto celato per cinquant’anni…
Leggendo Philip Roth, si ha l’impressione che neanche mettendocisi d’impegno sarebbe mai riuscito a scrivere un brutto libro. Sì, perché Roth è uno di quei pochissimi scrittori che non ne sbagliano mai uno (o quasi…), e dunque al recensore spetta solo il compito di decidere a quale grado di bontà arrivi il singolo titolo, in questo caso “La macchia umana”, lucidissima disamina degli orrori della “political correctness” nella società contemporanea.
Ma non solo! Come sempre, in Roth, il libro è ricco, denso, corposo, fitto di temi che – fortunatamente – non diventano mai “messaggio” ma restano straordinari viaggi intellettuali ed emotivi, scavi approfonditi in personaggi e situazioni descritte con lo stile di chi crede profondamente – anzitutto – nell’arte del raccontare, e solo in secondo luogo in quella del filosofare o dell’elucubrare. A stupire, nella “Macchia umana”, è la perfetta “rotondità” (non saprei in che altro modo definirla) dei personaggi, convincenti e credibili fino al dettaglio, e mai troppo programmatici, nonostante la trama in fondo lo richiedesse. D’altronde, se l’ex-marito violento di Faunia e la collega insegnante Delphine Roux sono personaggi che si prestano a qualche tratto stereotipato, costruzioni eccezionali sono invece la stessa Faunia – bidella semianalfabeta di trent’anni più giovane di Coleman Silk – e la “voce narrante” Nathan Zuckerman, da sempre alter ego di Philip Roth e protagonista di diversi romanzi del grande scrittore americano.
Senza dimenticare la figura centrale, quella di Coleman Silk, rispettabilissimo docente di letteratura greca nel piccolo, placido Athena College che, dopo aver convissuto per cinquant’anni con una umana, umanissima menzogna, con una “macchia” che solo lui era in grado di vedere, si trova improvvisamente – quasi per contrappasso – a scontare tutti i peccati e anche di più con una ingiusta, ridicola, tragica accusa di razzismo nei confronti di due studenti assenteisti di colore.
Quello che Roth descrive, stavolta, non è tanto l’ironico e contraddittorio mondo degli ebrei americani, il suo mondo, quanto piuttosto quello di una borghesia comoda e pasciuta che si lascia influenzare da ogni stupidaggine, purché venga raccontata nel mondo “giusto”. È, per dirlo con Robert Hughes, “la cultura del piagnisteo” ad essere messa al centro di questo limpido romanzo: il libro di Hughes uscì nel 1993, quello di Roth è del 2000: giusto il tempo di far propri i concetti che Hughes tanto chiaramente espone, ed ecco che Roth li trasforma in un romanzo dalla forma perfetta, levigato e profondo, appassionante nel suo ostinato scavo nel dolore di un uomo che non riesce più a uscire dal baratro in cui è sprofondato.
Eppure – e qui sta la magia della scrittura di Roth – “La macchia umana” non è mai un libro piagnucoloso o frignone, e non sceglie mai le strade più facili, preferendo la complessità alla semplificazione, con tutte le conseguenze del caso: una trama un po’ lenta nel suo dipanarsi, arrotolata com’è attorno alle storie di pochi personaggi esplorati fin nelle profondità delle loro anime, attraversati dal soffio magico della scrittura, costruiti riga dopo riga da una penna sapiente, alla quale nulla si può rimproverare, neppure l’autocompiacimento, cui Roth avrebbe anche diritto e che pure non esibisce mai.
Libro solido e completo, “La macchia umana” manca solo – forse – di un pizzico d’ironia in più, che altre volte Roth ha saputo profondere e che, a contatto con questa storia, forse ha finito per evaporare con naturalezza, bruciata dal vacuo orrore del “politicamente corretto” e del pensiero standardizzato. O della cultura del piagnisteo, appunto: quella secondo la quale – per citare “Apocalypse Now” – va bene sganciare napalm sulla gente, purché non si scriva la parola “cazzo” sulla carlinga dell’aereo che trasporta il micidiale intruglio.
(Recensione scritta ascoltando Paul Simon & Art Garfunkel, “The Sound of Silence”)
PREGI:
la scrittura di Roth è quanto di meglio la letteratura americana abbia proposto negli ultimi cinquant’anni, e basta questo a fare del libro un testo irrinunciabile, da leggere avidamente!
DIFETTI:
arduo trovarne, in un lavoro così levigato e controllato. Forse proprio il controllo perfetto, esercitato fino all’ultima virgola, rende il romanzo quasi più un teorema che una storia (ma, sia chiaro, il racconto scorre che è una meraviglia!)
CITAZIONE:
“Parlava con tutti. Perché appartiene a questa cultura di ebeti. Bla, bla, bla. Appartiene a questa generazione che è fiera della propria superficialità. […] Sincera e vuota, completamente vuota. La sincerità che va in tutte le direzioni. La sincerità che è peggio della falsità e l’innocenza che è peggio della corruzione. Tutta l’avidità che si nasconde sotto la sincerità. E sotto il gergo. Questo splendido linguaggio che hanno tutti, […] queste chiacchiere sulla loro «mancanza di autovalorizzazione», quando l’unica cosa di cui sono sempre convinti, in realtà, è di avere diritto a tutto. L’impudenza la chiamano tenerezza, e la crudeltà è camuffata da «autostima» perduta.” (pag. 160)
GIUDIZIO SINTETICO: ***
LEGENDA RECENSIONI
Sia per i libri che per i film, adotto nel giudizio sintetico il sistema Mereghetti, che va da 0 a 4 stelline: a 0, ovviamente, i giudizi più negativi, a 4 quelli più positivi, con tutti i possibili gradi intermedi…