Testi, pre-testi, divagazioni e spunti minimi intorno a libri letti, riletti, sfogliati
A cura di Roberto Mandile
PUNTATA 167
LADIES AND GENTLEMEN
Signore e signori inglesi: letteratura inglese di classe
Pelham Grenville Wodehouse – LA CONQUISTA DI LONDRA (1924)
Di cosa parla: La coscienza di Bill West si è fatta sentire: è venuta l’ora di smettere di vivere alle spalle del ricco zio Cooley. Così, quando quest’ultimo, meravigliato delle intenzioni del nipote, decide di metterlo alla prova, il giovane non esita ad accettare. L’anziano parente gli affida una missione delicatissima: lasciare New York e trasferirsi a Londra, per indagare sul motivo per cui la filiale inglese della sua azienda cartaria faccia registrare risultati così scarsi. Bill parte per il vecchio continente accompagnato dall’amico Judson Coker, alla cui sorella, Alice, ha confessato, non ricambiato, il suo amore; ancora non sa, però, che nella capitale britannica rincontrerà Felicia Sheridan, una ragazza a cui, anni prima, ha salvato la vita e che nutre per lui un sentimento di ammirazione fuori dal comune…
Commento: Nella fluviale produzione di Wodehouse (una novantina di romanzi) ci sarà pure qualche nota stonata, qualche testo poco riuscito, qualche trama zoppicante. Ci sarà, ma noi, nelle nostre occasionali e del tutto accidentali letture della sua opera, non li abbiamo ancora incontrati. E dire che gli ingredienti dei suoi libri sono quasi sempre gli stessi: almeno una coppia di giovani innamorati, un contorno di personaggi più o meno bizzarri (ma di quella eccentricità da upper class, nulla di davvero socialmente deviante!), una serie di peripezie avventurose e blandamente umoristiche, l’immancabile lieto fine. Eppure, i romanzi di Wodehouse – e questo, ribadiamolo, non fa eccezione – si leggono con una gioia e una soddisfazione ogni volta nuove. Merito senz’altro della lingua, un concentrato inarrivabile di leggerezza, ironia, fluidità che fanno dell’autore uno scrittore raro nel panorama letterario. La facilità con cui Wodehouse ci conduce, mano per mano, nelle pieghe della storia, tra New York e Londra, è il frutto di un’abilità narrativa difficile da trovare anche in autori ben più importanti. Basta leggere poche pagine per ritrovarsi di colpo catapultati in un mondo che non c’è più – ed è, peraltro, la facciata pulita e presentabile di una realtà che, all’epoca, era certo ben più sfaccettata e assai meno dorata di come potrebbe sembrare (ma Wodehouse non è Dickens e si tiene volutamente lontano da ogni squarcio di realismo, inteso come discesa negli abissi della società). Come in certe “commedie sofisticate” della cinematografia hollywoodiana degli anni Trenta e Quaranta, lo scrittore inglese, che visse a lungo negli Stati Uniti tanto da divenirne cittadino, sa alla perfezione che il ritmo è tutto, tanto nell’azione quanto nei dialoghi: è facile pensare che il lettore moderno fatichi ad apprezzare Wodehouse (cui rinfaccerebbe la prevedibilità e una certa “correttezza” nella rappresentazione della società) e giudichi la sua opera noiosa e datata; noi continuiamo a divertirci e ad ammirare una felicità di scrittura invidiabile (molto può fare, nel bene ma anche nel male, la traduzione!). Almeno fino a che non ci imbatteremo in quel romanzo che gira a vuoto, in quel libro malriuscito, in quel passo falso che pure ogni bravo scrittore, inevitabilmente…
GIUDIZIO: ***
Dorothy L. Sayers – ALTA MAREA PER LORD PETER (1932)
Di cosa parla: La scrittrice di gialli Harriet Vane sta facendo una passeggiata sulla spiaggia sulla costa inglese, quando scorge da lontano uno scoglio che sembra ricoperto da alghe. Di lì a pochi minuti, scopre che in realtà lì giace il corpo di un uomo con la gola tagliata. Con prontezza di riflessi, decide di scattare alcune fotografie prima che il cadavere, come pare inevitabile, venga trascinato via dalla marea che sta salendo. Si dirige dunque in cerca di aiuto verso il villaggio costiero più vicino. La notizia si diffonde velocemente e in soccorso di Harriet arriva Lord Peter Wimsey, che già da tempo corteggia la scrittrice: il defunto, il cui corpo è disperso, viene identificato in Paul Alexis, un giovane ballerino russo. Tutto sembra far credere che si tratti di un suicidio, ma le indagini sono appena all’inizio…
Commento: I romanzi gialli di Dorothy L. Sayers, la coltissima letterata che si convertì al poliziesco in gioventù per far quadrare i conti del bilancio familiare, hanno diviso i lettori: per gli estimatori rappresentano una delle vette del genere, proprio per la scrittura raffinata, la cura dei dettagli, dai personaggi ai dialoghi; i critici li considerano una summa dei vizi del genere, bollandoli come generatori di sbadigli a profusione. Rilevi, questi ultimi, che anche noi non abbiamo nascosto, in un paio di occasioni. Occorre, però, riconoscere che i difetti che si concentrano nei primi romanzi tendono, se non a scomparire, almeno a temperarsi parecchio nei libri successivi, come questo o i successivi Lord Peter e l’altro o Il segreto delle campane, nei quali la narrazione si fa più distesa (nel caso del nostro romanzo, sfioriamo le 500 pagine) e la bravura dell’autrice si può apprezzare nella capacità di dipingere luoghi e personaggi. La varietà dei registri maneggiati è notevole, e non manca una buona dose di ironia: persino Lord Peter è meno altezzoso e più amabile, grazie anche ai battibecchi con Harriet Vane, che ancora oppone resistenza di fronte alle sue insistite proposte di matrimonio. Certo, il libro può andare di traverso a chi vi riconosca – a ragione – i tipici artifici del giallo anglosassone, tutto concentrato sulla razionale ricostruzione del caso attraverso una serie di indizi apparentemente indecifrabili (c’è spazio anche per i messaggi cifrati) e, nonostante Sayers punzecchi metaletterariamente alcuni suoi colleghi giallisti per bocca di Harriet (a sua volta sorta di autoironica rappresentazione dell’autrice stessa), per apprezzare la storia – intricata come non mai – occorre sospendere un minimo l’incredulità e non badare ai trucchi ai quali l’autrice ricorre, compresa la (invero originalissima) soluzione finale. Materia buona per l’annosa competizione cara ai cultori del whodunit: chi è lo scrittore che bara di più? La vincitrice storica, Agatha Christie, trova qui una valida concorrente.
GIUDIZIO: **½
PRE-TESTI, DIVAGAZIONI
E SPUNTI MINIMI
Certo, essere una delle monarchie più antiche del mondo ha aiutato. Certo, essere stata una potenza coloniale ha contato pure qualcosa. E se la letteratura borghese ha senz’altro avuto come sua patria l’Inghilterra dell’Ottocento, è vero che la raffigurazione della società che da essa viene fuori (da Daniel Defoe a Jane Austen a Charles Dickens, dalle sorelle Brontë ad Agatha Christie, passando per Wilkie Collins e Anthony Trollope) consente agli scrittori, in ragione delle sue rigide stratificazioni ma anche della mobilità interna (consentita dalla capacità di fare soldi o buoni matrimoni), di reperire materia da romanzo senza allontanarsi dalla realtà, ma, anzi, servendosene come dello specchio più fedele dei moti dell’animo umano. Nel Novecento, le barriere di classe cadono e così “Ladies and Gentlemen” diventa una generica formula di cortesia, appannata dall’usura come tutte le frasi fatte. Chi sono le “signore” e i “signori”? Ci sono ancora codici di comportamento che li contraddistinguano? O altre sono le affinità diciamo pure di classe che hanno acquisito rilevanza? Una risposta interessante la forniva, già più di cinquant’anni fa, il grande poeta inglese Wystan Hugh Auden:
Se due persone scoprono di avere in comune una passione,
il sesso, Donizetti o certi piatti, la classe non è più una barriera:
resta però segreto a ogni classe il suo codice di buone maniere,
quale sia la linea da seguire quando si parla a estranei e seccatori.
In anni più vicini a noi, un altro grande scrittore inglese, Alan Bennett, ha offerto, con le sue opere (romanzi brevi, novelle, testi teatrali, ecc.), spunti interessanti per rileggere i cambiamenti sociali che si sono manifestati nel suo Paese (ma non solo). In fondo, suggerisce Bennett, quello che conta, oggi, non è più l’appartenenza di classe, ma l’umanità di ciascuno. È il caso, tra i tanti, dei sei monologhi scritti per la BBC negli anni ’80, riadattati per il teatro e infine raccolti in volume, in italiano proprio sotto il titolo Signore e signori (in inglese, però, era Talking Heads). Da Peggy, colpita da una malattia che le toglie progressivamente lucidità, a Graham, il quarantenne chiamato a fare i conti con la mamma, sempre più svampita, che ha deciso di risposarsi; da Susan, che, moglie di un vicario, compensa la sua mancanza di fede con l’alcol, a Miss Ruddock, che scrive lettere a tutti, senza accorgersi di diventare una stalker; da Lesley, attricetta che si sopravvaluta, a Muriel, che, ridotta sul lastrico, rivaluta il marito defunto, fino a Doris, ultrasettantenne, che si rifiuta di finire all’ospizio ma rischia di morire: i sei monologhi sono quadretti di quotidianità dipinti da un solo punto di vista, quello della voce narrante (sempre una donna, tranne che nel secondo), in cui lo stile acuto e brillante dell’autore mette a fuoco dettagli apparentemente incongrui ma in grado di svelare un intero mondo. Prevale l’ironia, a volte amara, ma fa capolino anche la commozione – che, a ben guardare, sono i toni da sempre prevalenti della letteratura inglese.
Testi citati
Wystan Hugh Auden – da “Shorts” – traduzione di Gilberto Forti (1969-1971)
Alan Bennett – SIGNORE E SIGNORI (2004)
LEGENDA RECENSIONI
Sia per i libri che per i film, adotto nel giudizio sintetico il sistema Mereghetti, che va da 0 a 4 stelline: a 0, ovviamente, i giudizi più negativi, a 4 quelli più positivi, con tutti i possibili gradi intermedi…