Testi, pre-testi, divagazioni e spunti minimi intorno a libri letti, riletti, sfogliati
A cura di Roberto Mandile
PUNTATA 168
IN PRIMA PERSONA
L’io in letteratura: tra finzione e disorientamento, come sottrarsi agli inganni dello scrittore che vuol confondersi col narratore
Marguerite Yourcenar – IL COLPO DI GRAZIA (1939)
Di cosa parla: A distanza di più di vent’anni, Eric von Lhomond rievoca le vicende che lo hanno interessato intorno al 1920, quando, giovane soldato, si trovava in Curlandia, regione baltica all’epoca scossa da una serie di guerre locali. Lì, ospite di due suoi cugini, Conrad e Sophie de Reval, Eric aveva dovuto destreggiarsi tra l’attrazione, che però doveva celare, per il primo, arruolatosi come lui, e dall’esplicito e insistente corteggiamento di lei, che egli non poteva contraccambiare. Sophie, che poco tempo prima era stata vittima di uno stupro da parte di un soldato, aveva mal tollerato di essere respinta, al punto da darsi all’alcool e ad altri uomini, finché…
Commento: Romanzo breve, scritto tra Carpi e Sorrento nel 1938, un anno prima del trasferimento negli Stati Uniti in seguito allo scoppio della guerra, è un saggio dello stile raffinatissimo della scrittrice francese. Basato, secondo quanto dichiarato dalla stessa autrice, su un fatto realmente accaduto, è un libro che, attraverso l’artificio della narrazione in prima persona – la vicenda è raccontata dal protagonista, soldato di professione ormai quarantenne, mentre, ferito a Saragozza nel corso della Guerra civile spagnola e curato a bordo di una nave ospedale italiana, aspetta al bar della stazione di Pisa un treno che lo riporti in Germania –, si presenta come una confessione di Eric von Lhomond, aristocratico dal sangue misto (un po’ tedesco, un po’ francese, con qualche traccia baltica). Entro questa cornice – che, per intenderci, richiama quella dell’opera più celebre di Yourcenar, Memorie di Adriano – si dipana sì la vicenda, nella quale non mancano episodi in sé forti, ma soprattutto trova modo di esprimersi l’autoanalisi alla quale si sottopone il protagonista. La componente psicologica è tutto, come la stessa scrittrice sembra indicare in una prefazione scritta più di vent’anni dopo la prima pubblicazione: «Il racconto è scritto in prima persona […], procedimento per il quale io ho una certa predilezione perché elimina dal libro il punto di vista dell’autore, o almeno i suoi commenti […] Bisogna tuttavia tener presente che un lungo racconto orale fatto dal protagonista a un uditorio compiacente e silenzioso è, checché se ne dica, una convenzione letteraria: […] nella vita reale […] di solito le confessioni sono più frammentate o più iterative, più imbrogliate o più vaghe». Si prova, pertanto, un certo senso di disorientamento durante la lettura per la scarsa rilevanza data ai meri fatti, che pure di per sé non sarebbero affatto di poco conto; la netta prevalenza per l’espressione dei propri contraddittori e irrisolti sentimenti e stati d’animo finisce persino per confondere un po’, anche perché Eric, secondo il suo codice morale di stampo aristocratico, mette in bella luce – sono ancora parole di Yourcenar – Sophie, nonostante il comportamento di costei si riveli tutt’altro che encomiabile. A dispetto della brevità, insomma, si tratta di pagine quanto mai dense, forse qua e là un po’ affettate nella loro levigatezza così ricercata. Il finale comunque commuove.
GIUDIZIO: **½
Murakami Haruki – PRIMA PERSONA SINGOLARE (2020)
Di cosa parla: In otto racconti, l’Autore ricorda alcuni episodi della sua vita, soprattutto della sua giovinezza: dalla notte d’amore trascorsa con una ragazza che componeva tanka all’invito da parte di una compagna di liceo, suonatrice di piano, a un concerto che però si risolve nell’incontro con uno strano e saggio vecchio; dall’articolo scritto su un disco inesistente di Charlie Parker alla storia d’amore con una sua fidanzata, di cui riavrà sconvolgenti notizie a distanza d’anni; dalla passione giovanile per il baseball alla frequentazione con una donna bruttissima ma raffinata cultrice di musica; dalla serata trascorsa in un hotel termale con una scimmia in vena di confessioni personali all’incontro in un bar con una donna che gli rivolge l’accusa di aver fatto una “cosa orribile, disgustosa”, qualche anno prima, a una sua amica…
Commento: Quando uno scrittore dice “io”, è sempre bene alzare le antenne e diffidare. Anche senza voler arrivare ai toni animosi di gaddiana memoria (vedi oltre), è sempre bene, come insegna un qualunque manuale di base di letteratura, distinguere tra autore e narratore. Nel leggere gli otto racconti di questa antologia, dal titolo programmatico, bisogna tuttavia fare i conti, probabilmente, anche con gli editori, considerato che sette testi sono apparsi prima su una rivista e solo l’ottavo, proprio quello che dà il titolo alla raccolta, è stato pubblicato per la prima volta all’uscita del volume. Insomma, non è forse colpa di Murakami se il lettore esce dalla lettura un po’ frastornato, specialmente per la presenza di un paio di racconti – e in particolare di Confessione di una scimmia di Shinagawa (l’unico peraltro che Einaudi decide di riassumere nella quarta di copertina!) – in cui una più o meno esplicita venatura fantastica fa vacillare l’impianto stesso della silloge. Prescindendo, però, dal criterio di composizione del libro, quello che resta – e vale – è l’indiscutibile piacevolezza dei testi. Quel che conta nei racconti è la misura, e Murakami riesce, quasi sempre, a mantenere l’equilibrio. Anche se – va detto – i racconti più riusciti sono quelli in cui ci si imbatte in qualcosa di sfuggente, misterioso o inatteso, come in Charlie Parker Plays Bossa Nova, With the Beatles (il più commovente), Carnaval o Prima persona singolare. Certo, qua e là (soprattutto in La crema della vita o nel già citato Confessione di una scimmia di Shinagawa), un quid di irrisolto rimane. L’impressione è di una lettura senz’altro gradevole, ma dell’io ci si dimentica presto e, se a Murakami non si possono non riconoscere doti narrative di prima qualità, è indubbio che talora si faccia prendere dal vezzo di lanciare il sasso e nascondere la mano.
GIUDIZIO: **½
PRE-TESTI, DIVAGAZIONI
E SPUNTI MINIMI
Volendo prescindere da Proust (è ancora possibile, dopo la Recherche, scrivere in prima persona?), resta sempre da definire, in letteratura, quali siano i confini tra autore e narratore. Materia per i fissati con la narratologia, si sarebbe detto un tempo. Questione da saltare a piè pari, a leggere quei romanzi (c’è chi parla di autofiction, ci si perdoni il termine) in cui è fin troppo chiaro che l’autore fa di tutto per non nascondersi dietro il narratore. Parlare di sé, ritenendo che la propria unicità sia degna di assumere forma scritta, è da sempre l’escamotage preferito di chi confonde il diario delle scuole medie con la letteratura e, quindi, ben lungi dal mettere sotto chiave le pagine cui ha affidato le proprie sofferenze preadolescenziali (sempre uniche, sempre straordinarie), pretende che gli altri ci si appassionino per rispecchiarvisi, facendosi forte di convinzioni del genere “ho voluto scrivere questa storia personale perché penso che riguardi molte persone come me”. Ignorando dunque che proprio il fatto che riguardi molte persone come lui o lei è spesso il miglior motivo per tenersene lontani: non sarebbe meglio interessarsi anche a qualcosa di diverso del nostro ombelico?
E così, ci sentiamo in diritto di consigliare meno Marcel Proust e più Carlo Emilio Gadda, almeno per gli aspiranti scrittori che vogliano abusare della prima persona. Merita sempre rileggere la lunga invettiva contro l’“io”, “il più lurido di tutti i pronomi” di Gonzalo Pirobutirro, alter ego dell’autore ne La cognizione del dolore, con una tale vividezza di immagini e una lingua così sfolgorante da far dimenticare al lettore che in fondo Gadda è (né più né meno che Proust) uno degli scrittori che più ha parlato di sé nei suoi romanzi:
“Quando l’essere si parzializza, in un sacco, in una lercia trippa, i di cui confini sono più miserabili e più fessi di questo fesso muro pagatasse… che lei me lo scavalca in un salto… quando succede questo bel fatto… allora… è allora che l’io si determina, con la sua brava mònade in coppa, come il càppero sull’acciuga arrotolata sulla fetta di limone sulla costoletta alla viennese… Allora, allora! è allora, proprio, in quel preciso momento, che spunta fuori quello sparagone d’un io… pimpante… eretto… impennacchiato di attributi di ogni maniera… paonazzo, e pennuto, e teso, e turgido… come un tacchino… in una ruota di diplomi ingegnereschi, di titoli cavallereschi… saturo di glorie di famiglia… onusto di chincaglieria e di gusci di arselle come un re negro…”
Se, insomma, non va presa troppo alla lettera l’invettiva gaddiana, come la mettiamo con i poeti che non possono fare a meno della prima persona, almeno da quando poesia e lirica sono di fatto sinonimi. Una via d’uscita la suggerisce Giorgio Vigolo, coltissimo poeta (ma anche critico e traduttore) romano che, in un moto ancora una volta degno di Gadda, si scaglia con furore autodistruttivo contro i suoi stessi versi, salvo però indicare una possibile salvezza che, ancora una volta, conferma il carattere intrinsecamente contraddittorio della letteratura:
Io detesto le mie poesie
non meno di te, o mio abominevole lettore,
anzi ti supero nella viltà,
in bassa denigrazione
e nausea di me stesso;
ma ho pure momenti
in cui esse mi svelano
una loro deserta e tragica bellezza
di cui io stesso non sono degno
e rimango abbagliato.
Per quei soli momenti vivo ancora.
Testi citati
Carlo Emilio Gadda – da “La cognizione del dolore”, parte prima, III (1963)
Giorgio Vigolo – CONGEDO, in “I fantasmi di pietra” (1977)
LEGENDA RECENSIONI
Sia per i libri che per i film, adotto nel giudizio sintetico il sistema Mereghetti, che va da 0 a 4 stelline: a 0, ovviamente, i giudizi più negativi, a 4 quelli più positivi, con tutti i possibili gradi intermedi…