Testi, pre-testi, divagazioni e spunti minimi intorno a libri letti, riletti, sfogliati
A cura di Roberto Mandile
PUNTATA 186
STORIE (DI) CLINICHE
Malattie neurologiche, sindromi psichiatriche e non solo: quando i luoghi di cura diventano luoghi letterari
Oliver Sacks – RISVEGLI (1973-1990)
Di cosa parla: Le vicende di alcuni dei pazienti ricoverati presso il Mount Carmel Hospital di New York prendono corpo attraverso i ritratti e le considerazioni del loro medico, autore del libro. Si tratta di uomini e donne vittime dell’epidemia di encefalite letargica degli anni Venti, sottoposti, sul finire degli anni Sessanta a una terapia sperimentale: sotto gli effetti del nuovo farmaco, la L-Dopa, ognuno di essi reagisce in modo diverso, ma tutti o quasi si risvegliano dallo stato di torpore e immobilità cui la malattia, che dà sintomi simili a quelli del morbo di Parkinson, anche se più gravi, li aveva costretti…
Commento: Prescindendo dalle trasposizioni teatrali (la più importante è la pièce di Harold Pinter A Kind of Alaska) e cinematografiche (il celebre film di Penny Marshall con Robin Williams e Robert De Niro), sulle quali peraltro lo stesso autore si sofferma in una delle appendici, il libro rivelò, alla sua prima uscita, nel 1973 (diversi aggiornamenti seguirono fino al 1990), le straordinarie doti narrative di Oliver Sacks. Il che potrebbe portarci a chiedersi se esse non siano, almeno in questo caso, una sorta di corollario delle straordinarie doti umane che l’autore mostrò come medico. L’attenzione sul piano clinico per i pazienti sembra, infatti, la premessa logica della sua capacità di cogliere – e di trasferire sulla pagina con una facilità eccezionale – l’essenza stessa degli uomini e delle donne (persone e personaggi: i nomi sono stati modificati) che popolano la sezione centrale del libro, dal titolo omonimo dell’intero volume. È, quella di Sacks, l’abilità del ritrattista, che segue uno schema fisso ma proprio per questo narrativamente efficace: di Rose R., di Hester Y., di Rolando P., di Martha N., di Leonard L. (e degli altri pazienti: l’autore ne sceglie solo una ventina dei tanti che all’epoca ebbe in cura) ci viene fornito un quadro della situazione prima e dopo la cura con la L-Dopa. Ed è innanzitutto nella imprevedibilità – che, in letteratura, è sempre un pregio – delle reazioni dei singoli pazienti che risiede il maggior interesse del libro; nella singolarità delle storie, nella unicità dei protagonisti e nella loro umanità (sempre dolente, ma anche capace di slanci di generosità e, talora, di consapevolezza fuori dal comune) è riflesso anche il senso dell’agire del medico.
Se, da un lato, Leonard L. (il paziente su cui è modellato il personaggio di De Niro nel film), uomo colto e sensibilissimo, arriverà a scrivere nella sua autobiografia: “Sono una candela vivente. Mi consumo perché voi possiate imparare. La luce della mia sofferenza permetterà di vedere cose nuove”, Oliver Sacks perviene alla deduzione che “questi malati sono smentite viventi al pensiero meccanicistico”, all’idea cioè che la medicina possa agire indipendentemente dai malati, elaborando diagnosi standard e procedendo secondo parametri rigidi. Al lettore profano resta l’impressione che la mente sia ancora un mistero insondabile e che la nostra unicità, precario appiglio a cui dovremmo ancorare innanzitutto la stessa precarietà del tutto, è troppo spesso obliterata da un desiderio di normalità che solo la malattia è in grado di mettere in discussione.
L’ambigua ipocrisia che ci spinge a celebrare retoricamente la diversità e l’inclusione si scontra sempre con una realtà che ci obbliga a riconoscere quanto sia difficile, doloroso, faticoso riconoscersi nella condizione di malati. Così, se ogni risveglio apre a una speranza, mai l’evoluzione successiva porta alla guarigione: ma la cura – insegna il libro – si esplica in molti modi, non escluso quello farmacologico.
GIUDIZIO: ***½

Cormac McCarthy – STELLA MARIS (2022)
Di cosa parla: 1972. La ventenne Alicia Western si presenta nella clinica psichiatrica Stella Maris, in Wisconsin, dove già in precedenza era stata ricoverata per due volte. Nei colloqui con il suo terapeuta, il dottor Cohen, la giovane ricostruisce la propria vita, segnata, fin dall’età di dodici anni, da ricorrenti allucinazioni, durante le quali dialoga con un gruppo di personaggi bizzarri, capeggiati da un individuo fornito di pinne da lei denominato Talidomide Kid. Alicia, dotata di uno straordinario talento matematico e di una passione per il violino, nonché affetta da schizofrenia, si dimostra reticente soprattutto riguardo alla natura del suo rapporto con il fratello maggiore Bobby, pilota in coma a seguito di un grave incidente automobilistico, di cui alla fine si confessa innamorata da sempre…
Commento: Il secondo volume della dilogia inaugurata da Il passeggero è un prequel, essendo ambientato otto anni prima. Ma, rispetto al romanzo pubblicato per primo, non contiene significative novità sul piano della storia (ne chiarisce, semmai, alcuni aspetti, ad esempio quello del rapporto tra i due fratelli), pur facendo segnare un piccolo passo avanti. Sul piano delle dimensioni e dello stile: McCarthy torna, infatti, alla secchezza che gli conosciamo, scegliendo di costruire l’intero libro esclusivamente sui dialoghi tra Alicia e il dottor Cohen. Abolendo non solo ogni traccia di narratore (esterno o interno), ma rinunciando anche a tutto ciò che potrebbe essere fonte di disorientamento per il lettore (descrizioni, didascalie, ecc.), l’autore focalizza tutta l’attenzione sul personaggio di Alicia, la cui condizione psichiatrica è senz’altro un motivo di interesse di per sé. Tanto più in rapporto al suo terapeuta, un tipo del tutto comune che, di fronte alla genialità della sua paziente, non può che limitarsi a ripetere frasi del genere: “Non sono sicuro di aver capito”.
I colloqui tra i due si possono tranquillamente ricondurre alla tradizione dei dialoghi filosofici, da Platone in poi, considerati i temi affrontati, che ruotano principalmente intorno alla matematica: di nuovo, McCarthy non risparmia al lettore un giro sulle montagne russe per la vertigine degli argomenti, iperspecialistici e non di rado ostici. Se valutato secondo i parametri di un romanzo classico, il libro non supera la prova (di trama non c’è quasi traccia e, peraltro, dopo la lettura de Il passeggero, il finale è noto); ma il personaggio di Alicia è incisivo nel suo nichilismo spietato che non fa sconti e il suo tour de force dialettico, per quanto arduo, è stimolante per chi non cerca nella letteratura solo uno specchio autoconsolatorio in cui riflettere la propria visione delle cose. La disperazione della protagonista, il suo essere così drammaticamente cosciente di sé e dell’incolmabile divario tra la sua vita e i suoi desideri, non possono lasciare indifferenti, tanto più se si pensa che siamo di fronte al testamento letterario di un grande autore.
GIUDIZIO: **½

PRE-TESTI, DIVAGAZIONI
E SPUNTI MINIMI
Al risveglio in un letto d’ospedale, Nicholas Matheny si accorge di non ricordarsi nulla di sé e della propria vita. Scopre di essere stato operato alla testa a seguito di una ferita di arma da fuoco, ma, quando, col passare dei giorni, capisce di essere ricoverato in un istituto psichiatrico e di essere oggetto di una serie di restrizioni all’apparenza incomprensibili, decide di mettere in atto un piano di fuga. Anche perché, a poco a poco, la memoria gli restituisce frammenti della sua esistenza precedente, quando era a capo di un’azienda sul punto di brevettare una scoperta forse decisiva per le sorti della guerra in corso.
Uno degli incubi più tipici di molta letteratura del terrore è legato al tema dell’identità perduta: un caso interessante è presentato da L’ombra inafferrabile, ultimo romanzo dei cinque libri di Virginia Perdue, un’autrice americana attiva nella prima metà degli anni Quaranta di cui si riconobbe l’importanza all’epoca, quando riscosse un buon successo di pubblico e critica, ma che è poi caduta progressivamente nell’oblio. È un romanzo riuscito e compatto, soprattutto nella prima parte, quella ambientata appunto nella clinica. Se il tema può apparire anche convenzionale, alla luce dei tanti svolgimenti che nella letteratura come nel cinema ne sono stati forniti, il punto di forza del romanzo risiede nell’asciuttezza stilistica che sostiene la narrazione fino al colpo di scena finale. Uno spunto analogo si ritroverà in un bellissimo episodio della storica serie tv americana The Twilight Zone (in italiano Ai confini della realtà): l’episodio, dal titolo Persona o persone sconosciute (la prima messa in onda, negli USA, è del 1962), racconta del ricovero in manicomio di un uomo che, accortosi al risveglio che nessuno lo conosce e che i segni esteriori della sua identità sono scomparsi, viene scambiato per pazzo; tenterà di scappare e proverà, in ogni modo, a dimostrare di essere vittima di un complotto, finché tutto non si rivelerà solo un brutto sogno, anche se l’incubo non parrà affatto terminato.
Prende le mosse da un’esperienza altrettanto drammatica, ma reale (e ambientata, come il romanzo di Perdue, durante la Seconda guerra mondiale) la Ballata scritta in una clinica di Eugenio Montale, che così, in una lettera al critico Gianfranco Contini del 29 maggio 1945, inquadra la genesi della poesia, poi inserita nella sezione Dopo della raccolta La bufera e altro, pubblicata nel 1956. La Mosca, ossia la futura moglie Drusilla Tanzi – scrive il poeta a Contini – è ammalata da ottobre ed è “tuttora ingessata a letto; due mesi li abbiamo passati in una clinica dove lei era censée di esalar l’ultimo respiro; invece una notte (suppergiù quella del trapasso) s’è alzata, ha ridacchiato, ha mangiato fichi secchi, bevuto port wine e il giorno dopo la catastrofe era conclusa”. La clinica come luogo liminare, confine tra la vita e la morte, si carica di un valore altamente simbolico, diventando essa stessa immagine della partecipazione alla sofferenza, che è al contempo stravolgimento ma anche attesa e sospensione:
Nel solco dell’emergenza:
quando si sciolse oltremonte
la folle cometa agostana
nell’aria ancora serena
– ma buio per noi, e terrore
e crolli di altane e di ponti
su noi come Giona sepolti
nel ventre della balena –
ed io mi volsi e lo specchio
di me più non era lo stesso
perché la gola ed il petto
t’avevano chiuso di colpo
in un manichino di gesso.
Nel cavo delle tue orbite
brillavano lenti di lacrime
più spesse di questi tuoi grossi
occhiali di tartaruga
che a notte ti tolgo e avvicino
alle fiale della morfina.
L’iddio taurino non era
il nostro, ma il Dio che colora
di fuoco i gigli del fosso:
Ariete invocai e la fuga
del mostro cornuto travolse
con l’ultimo orgoglio anche il cuore
schiantato dalla tua tosse.
Attendo un cenno, se è prossima
l’ora del ratto finale:
son pronto e la penitenza
s’inizia fin d’ora nel cupo
singulto di valli e dirupi
dell’altra Emergenza.
Hai messo sul comodino
il bulldog di legno, la sveglia
col fosforo sulle lancette
che spande un tenue lucore
sul tuo dormiveglia,
il nulla che basta a chi vuole
forzare la porta stretta;
e fuori, rossa, s’inasta,
si spiega sul bianco una croce.
Con te anch’io m’affaccio alla voce
che irrompe nell’alba, all’enorme
presenza dei morti; e poi l’ululo
del cane di legno è il mio, muto.

Testi citati
Virginia Perdue – L’OMBRA INAFFERRABILE (1944)
Eugenio Montale – BALLATA SCRITTA IN UNA CLINICA, in “La bufera e altro” (1956)
LEGENDA RECENSIONI
Sia per i libri che per i film, adotto nel giudizio sintetico il sistema Mereghetti, che va da 0 a 4 stelline: a 0, ovviamente, i giudizi più negativi, a 4 quelli più positivi, con tutti i possibili gradi intermedi…