LECTIO BREVIS / 187

Testi, pre-testi, divagazioni e spunti minimi intorno a libri letti, riletti, sfogliati

A cura di Roberto Mandile

PUNTATA 187
POTERI FORTI
Associazioni di industriali e multinazionali, ma anche signori, signorotti, politici e uomini di Chiesa

Rex Stout – MORTO CHE PARLA (1947)

Di cosa parla: Poco dopo il suo arrivo a New York, dove dovrebbe tenere una conferenza di fronte ai membri dell’Associazione Nazionale degli Industriali (NIA), Charley Boone, direttore dell’Ufficio Controlli Prezzi, viene ammazzato: colpito a morte, nella stanzetta dello stesso albergo che ospita l’incontro, con una chiave inglese. I possibili sospetti sono nientemeno che i millequattrocento invitati, ma la NIA, che già non gode di grande popolarità presso l’opinione pubblica, decide di rivolgersi a Nero Wolfe perché conduca le indagini e metta a tacere il prima possibili le voci. Fin da subito, l’inchiesta si concentra sui cilindri di un dittafono, sui quali la vittima aveva registrato, il giorno prima di morire, alcuni messaggi e che ora sono scomparsi: appare chiaro fin da subito che, per districare la matassa, sarebbe fondamentale riascoltare la voce del morto…

Commento: Poteri forti, si direbbe. Così, almeno, si presentano le due associazioni – entrambe frutto dell’invenzione di Stout – al centro del romanzo, il nono della serie di Nero Wolfe. Poteri occulti, non proprio trasparenti e, nel caso della NIA, ben poco popolari. E d’altronde, le somme di denaro menzionate nel libro sono cifre di tutto rispetto. Ma, a dispetto delle premesse e nonostante, di fatto, nessuna delle associazioni ne esca particolarmente bene, all’autore non interessa fare del giallo uno strumento per trattare altri (e più seri) guasti della società: basta, e avanza, quanto a malefatte, l’omicidio. E sotto questo profilo, l’indagine è, specie nelle pagine finali, tra le più riuscite, appassionanti e ben risolte di tutta la pur egregia produzione di Rex Stout. Merito non solo, come sempre, della scrittura, quanto mai ironica, ma anche di alcune trovate che, seppure non isolate nei gialli di Nero Wolfe, sono qui particolarmente azzeccate. Ad esempio, il quasi arresto di Nero Wolfe ad opera di un ispettore a cui, a un certo punto, vengono affidate le indagini in sostituzione dell’ispettore Cramer (che si potrà godere con comodo la sua rivincita nel finale). O ancora, il successivo stato di allucinazione – vera o inscenata? – in cui cade lo stesso pachidermico investigatore, tanto fuori di sé da finire per scendere le scale di casa anziché prendere l’ascensore e presentarsi in pigiama fuori dalla sua stanza. Eventi del tutto inauditi, a dire di Archie Goodwin, che al suo datore di lavoro arriva a rinfacciare: “Lei farebbe di tutto pur di mettere in scena una bella commedia, sempre che le si paghi il prezzo massimo”. Ecco, i polizieschi di Nero Wolfe sono, per molti versi, come una bella commedia: il canovaccio è abbastanza prevedibile, come in tutti i gialli che si rispettano; i personaggi fissi o quasi; la differenza la fa l’autore, che, introducendo di volta in volta qualche variante, sa offrire ad ogni storia un divertimento nuovo, nel quale, però, il lettore riconosce, con grande soddisfazione, un’aria di casa che lo appaga più di tutto.       

GIUDIZIO: ***

Hector Luis Belial / Elia Gonella – ALLA CORTE DEL RE CREMISI (2011)

Di cosa parla: Ermete Roma, un passato da maratoneta con qualche lato oscuro, è un ispettore della Human+, multinazionale leader nel produrre e commercializzare organi sintetici per il corpo umano. Richiamato a Milano dalla Finlandia, dove si è trasferito e lavora, per ispezionare un nuovo punto vendita, Ermete si ritrova alle prese con un fallito attentato ordito da Dante, un dipendente della filiale, ai danni del direttore. Poco dopo Dante, che con il suo gesto avrebbe voluto denunciare l’azienda, colpevole ai suoi occhi, di vendere prodotti tutt’altro che sicuri, si suicida. E anche Ermete, complice l’incontro con Paolo, suo ex allenatore, che ha una gamba sintetica quasi in cancrena, si ricrederà sulla Human+ e troverà un’inattesa alleata nella poliziotta Barbara, chiamata a indagare sul suicidio di Dante…

Commento: Dobbiamo confessare che, dopo aver letto il romanzo, siamo stati colti da un moto di perplessità, un senso di smarrimento, un accenno di confusione. Per fortuna, ci siamo detti, c’è il poscritto di Elia Gonella. Lasciamo che sia l’autore a illuminarci, a diradare la nebbia, a far svanire ogni residuo di obnubilamento. Ogni speranza si è infranta però di fronte alla notizia della precoce scomparsa di Hector Luis Belial (dopo solo due romanzi): nel darne il tragico annuncio ai lettori, il Gonella, suo amico e sodale, prova anche a spiegarci che il Belial era non solo “un autentico bastardo” e “un insopportabile cinico misantropo”, ma anche un tipo inaffidabile, sul piano squisitamente narrativo: ne fa fede il fatto che “alla struttura, al ritmo, alla verosimiglianza dedicava un interesse scarsissimo, come se si trattasse di aspetti minori, se non meschini, del mestiere della scrittura”. Ne deduciamo, dunque, che a sporcarsi le mani con queste basse necessità, nelle pagine che abbiamo appena finito di sfogliare, sia stato lo stesso Gonella (“Lui – il Belial – preferì sempre, quasi sempre a sproposito, la parola ‘arte’”, in luogo di ‘mestiere’, s’intende). Ecco, proprio per questo vorremmo sommessamente segnalare all’autore, inteso come entità più alta di qualunque nome (in fondo che cosa c’è in un nome? – diceva un antico collega del nostro duo già qualche secolo fa), tutta la nostra fatica a riconoscere nel libro anche solo una parvenza di struttura, ritmo, verosimiglianza. Non mettiamo in dubbio che il Gonella abbia profuso tutte le sue energie nel colmare le lacune del Belial, ma di fronte alle acrobazie logiche di una trama a dir poco misera, stiracchiata, infarcita di scene che fanno a gara per insulsaggine e prevedibilità, qualche domanda ci affiora alle labbra.

Ad esempio, a voler guardare la struttura: l’intreccio tra la vicenda principale del romanzo e le “immagini oniriche” che “rivelano una realtà più profonda e oscura di quella che i personaggi vorrebbero vedere” (così nel risvolto di copertina) è un’idea del Belial perfezionata strutturalmente dal Gonella? O, ancora, quanto al ritmo: nella sequenza decisiva del romanzo – tra pistole che compaiono e ricompaiono ogni volta in mani inaspettate, jeep che carambolano su sé stesse (sic!) e cattivi che precipitano “giù dal lastrico” – la predilezione del Belial per “le soluzioni truci e i finali tragici e prematuri” è stata affinata ritmicamente dal Gonella? Per quel che riguarda la ‘verosimiglianza’, infine, che dire dell’idea centrale del romanzo, lo snodo narrativo che scioglie ogni nodo, la chiave di tutto, che poi è una chiavetta, la chiavetta USB che consente all’impagabile duo di investigatori per caso Ermete-Barbara di mettere finalmente con le spalle al muro la Human+? Noi fatichiamo a capire se ascrivere questa intuizione così geniale, questa trovata tanto ingegnosa all’impulsivo Belial, che pure “esercitava […] uno scarso controllo sullo sviluppo della trama”, o non piuttosto al paziente Gonella, al suo cercare “disperatamente, tra le innumerevoli vie, l’unica che avrebbe condotto all’uscita”. Purtroppo, però, il Belial è morto e ogni interrogativo è destinato a restare inevaso: non vorremmo caricare l’ingrato fardello di rispondere delle innumerevoli tare del romanzo sulle spalle del solo Gonella. Siamo convinti che la scomparsa del Belial sia un peso già abbastanza gravoso da sopportare.

GIUDIZIO: °

PRE-TESTI, DIVAGAZIONI
E SPUNTI MINIMI

“Perciò non vi maravigliate se fra Cristoforo, col buon testimonio della sua coscienza, col sentimento fermissimo della giustizia della causa ch’egli veniva a sostenere, e un sentimento misto d’orrore e di compassione per don Rodrigo, stesse con una cert’aria di peritanza e di sommissione al cospetto di quello stesso don Rodrigo, che era lì seduto a scranna, in casa sua, nel suo regno, circondato di amici, d’omaggi, e degli indizii della sua potenza, con una cera da far morire in bocca a chi che sia una domanda, non che un consiglio, non che una correzione, non che un rimprovero. A destra di lui sedeva quel conte Attilio suo cugino, e se fa bisogno di dirlo, suo collega di libertinaggio e di soverchieria, il quale era venuto da Milano a villeggiare per alcuni giorni con lui. A sinistra, e ad un altro lato della tavola, stava con un gran rispetto, temperato però d’una certa quale sicurezza e d’una certa quale saccenteria, il signor podestà, quegli medesimo al quale, secondo le gride, sarebbe toccato di far giustizia a Renzo Tramaglino, e di applicare a don Rodrigo una di quelle tali pene. Di rincontro al podestà, in atto d’un rispetto il più puro, il più sviscerato, sedeva il nostro dottor Azzecca-garbugli, in cappa nera, e col naso più rubicondo del solito: rimpetto ai due cugini, due convitati oscuri, dei quali la nostra storia dice soltanto che non facevano altro che mangiare, inchinare il capo, sorridere ed approvare ogni cosa che dicesse un commensale, e a cui un altro non contraddicesse.”

La visita di fra Cristoforo al palazzo di don Rodrigo offre ad Alessandro Manzoni l’occasione di chiarire, con l’efficacia dei grandi scrittori, i rapporti di forza tra i due. Così, se alla solitudine del primo si oppone la compagnia che circonda il secondo, ecco che l’ironia di Manzoni non perde occasione di far intendere come ciò che sta intorno al signorotto spagnolo sia solo apparato, orpello, finzione. Dal cugino conte Attilio “collega di libertinaggio e di soverchieria” al signor podestà, succube di colui a cui avrebbe dovuto applicare “una di quelle tali pene”, dal dottor Azzecca-garbugli “col naso più rubicondo del solito” ai due “convitati oscuri” che altro non fanno che mangiare e inchinare il capo: la piccola e meschina corte riunita alla tavola di don Rodrigo è fatta di gente come lui o di uomini che gli si sottomettono per viltà o convenienza. Di ben altra natura apparirà, più avanti nel romanzo, il potere dell’Innominato, la cui grandezza, nel male prima e nel momento della conversione poi, rifugge ogni forma di compromissione, ogni adulazione, proiettata e chiusa com’è in una solitudine tragica. E, d’altra parte, a don Rodrigo occorrerà un potere vero, superiore al suo non solo per rapire Lucia ma persino per allontanare fra Cristoforo dal convento di Pescarenico: ci penserà, su invito del cugino Attilio, il conte zio a convincere il padre provinciale, e di nuovo a un pranzo con più invitati seguirà un colloquio privato tra i due: “due potestà, due canizie, due esperienze consumate”. Ecco dunque perché il piccolo potere di don Rodrigo è destinato a sbriciolarsi presto; quando, nel finale del romanzo, lui e fra Cristoforo si rincontreranno nel lazzeretto, sarà il primo a dover fare i conti con la solitudine a cui la peste, anticamera della morte imminente, lo ha condannato.

Il più manzoniano degli scrittori italiani novecenteschi, Leonardo Sciascia, è forse l’autore che ha più raccontato storie di “poteri forti”, anche se saggiamente si è sempre ben guardato dal definirli tali. Anche volendo prescindere dalle opere più esplicitamente saggistiche che indagano su fatti avvolti dal mistero per i quali si sono ipotizzati oscuri complotti o macchinazioni ad alto livello (da I pugnalatori a L’affaire Moro), il tema si presenta in almeno due romanzi: Il contesto, un giallo in cui il depistaggio delle indagini svolte da un ispettore di polizia su un caso di omicidio chiama in causa gli alti vertici dello stato, e soprattutto Todo modo. Anche in questo caso, tutto ruota intorno a un delitto, che ha luogo, però, in un ex eremo diventato albergo e luogo di ritrovo, sotto la guida dell’ambiguo Don Gaetano, di politici e uomini d’affari di alto livello ivi convenuti per degli esercizi spirituali. La vittima, ammazzata durante la recita del rosario, è un ex senatore e ancora una volta le indagini non approderanno a una conclusione univoca. Come nel Seicento italo-spagnolo de I promessi sposi, anche Sciascia individua nel rapporto tra il potere politico e quello religioso della Chiesa cattolica (“una forza senza forza, un potere senza potere, una realtà senza realtà” così la definisce l’autore nel romanzo) la chiave di lettura per interpretare l’essenza stessa del potere in Italia (siamo negli anni Settanta e i riferimenti alla Democrazia Cristiana diventeranno espliciti nel film che trarrà dal libro Elio Petri). E in fondo il titolo stesso del romanzo, citazione parziale di una frase di Ignazio di Loyola, ci riporta in qualche modo al clima controriformistico, fortemente segnato dalla prevalenza del clero spagnolo, protagonista, tramite la longa manus dei gesuiti, del rinnovamento della Chiesa cattolica post-tridentina. Il finale del romanzo di Sciascia resta aperto, come a dire che chi si chiedesse se fu vero potere, non ha che da ripetersi l’ovvia sentenza manzoniana: “Ai posteri l’ardua sentenza”…  

Testi citati
Alessandro Manzoni – I PROMESSI SPOSI, capitolo V (1840)
Leonardo Sciascia – TODO MODO (1974)

LEGENDA RECENSIONI
Sia per i libri che per i film, adotto nel giudizio sintetico il sistema Mereghetti, che va da 0 a 4 stelline: a 0, ovviamente, i giudizi più negativi, a 4 quelli più positivi, con tutti i possibili gradi intermedi…

?
0
1/2
*
*1/2
NON GIUDICABILE con i sistemi ìclassiciî di voto
PESSIMO
QUASI PESSIMO
BRUTTO
BRUTTINO
 
**
**1/2
***
***1/2
****
ACCETTABILE
DISCRETO
BUONO
MOLTO BUONO
CAPOLAVORO