# 282 – Frédéric Beigbeder – WINDOWS ON THE WORLD (Bompiani, 2004, pagg. 312)
Dalle 8.30 alle 10.28 dell’11 settembre 2001, il libro scandisce, in altrettanti capitoli, ogni minuto di quelle terribili due ore durante le quali le Torri Gemelle vennero colpite dagli aerei dirottati dai terroristi kamikaze di Al Qaeda e finirono per crollare; il racconto procede alternando l’Io narrante dell’Autore che riflette, a distanza di qualche anno, sulle cause e sulle conseguenze di quell’impressionante attentato, ma anche sulla propria condizione di intellettuale francese e di uomo dagli amori incostanti e fallimentari, e quello di Carthew Yorston, immaginario padre di due bambini che l’11 settembre alle 8.30 si trovava coi figli al “Windows on the World”, il ristorante che sorgeva ai piani 106° e 107° della Torre Nord. Intrecciando punti di vista e considerazioni, ambienti e città (Parigi e New York), caratteri e difetti, Beigbeder costruisce un immaginario, ma impietoso e lancinante dialogo tra sé stesso e le vittime del più grave attentato della Storia, e si sforza di affrontare a viso aperto tanto l’orrore dell’accaduto quanto le sue più profonde cause, senza assolvere nessuno e senza fare sconti (neppure a sé stesso, “bobo” – borghese-bohémien – ininfluente e vanesio), ma andando, nelle motivazioni dei terroristi e nel dolore delle vittime, più a fondo di quanto si potrebbe immaginare, anche rispetto a tanti ponderosi saggi di moderna geopolitica, e ribadendo così la forza affabulatoria e sanamente didascalica della narrativa.
L’11 settembre 2001, nel primo pomeriggio, quando, per via del fuso orario, giunse in Italia la notizia dell’attacco in corso al World Trade Center di New York, stavo studiando l’Inferno di Dante nel mio monolocale di corso di Porta Ticinese, a Milano, in preparazione all’esame di Letteratura Italiana, che avrei dato di lì a poco. Alla luce dei fatti, niente di più appropriato! Tutti noi che c’eravamo sappiamo cosa stavamo facendo quel giorno, in quel momento, e sappiamo come siamo venuti a conoscenza dell’accaduto: nel mio caso, fu una telefonata di Gabriele Caprotti (più che un amico, un fratello) che mi disse: “Stai guardando la TV? È successo un casino a New York!” Lo sappiamo perché, volenti o nolenti, quel giorno ha cambiato le nostre vite, ha inciso uno spartiacque tra un “prima” e un “dopo”, ha aperto a due decenni (finora) di guerre e di dubbi, di feroci contrapposizioni e incandescenti polemiche.
Quel paio d’ore dall’impatto del primo aereo al crollo della seconda Torre, scanditi dalle edizioni speciali dei TG di tutto il mondo e dalle implacabili immagini dei grattacieli in fiamme – terrificante materializzazione di un oscuro presagio che albergava forse in tutto l’Occidente – si sono scolpite negli spettatori, generando paura, dolore, sconcerto, senso di impotenza e rabbia (non necessariamente in quest’ordine). Da allora, sono stati scritti quintali di libri sull’attentato, tra cui quelli, polemici e rabbiosi, che hanno diviso l’opinione pubblica soprattutto qui in Italia, di Oriana Fallaci. Ebbene, cosa può aggiungere un libro di narrativa a questa mastodontica e specialistica produzione, cosa può dire uno scrittore di fiction (neanche tra i più bravi) che abbia più valore delle disamine di ferrati analisti politici e informatissimi giornalisti?
Perché leggere Beigbeder anziché la Fallaci, o uno dei tantissimi validi americanisti, da Gianni Riotta in giù, che abbiano scritto qualcosa sull’11 settembre? Semplice: perché Beigbeder è un narratore. Non è un saggista (anche se nel suo libro c’è anche una parte di saggismo) e non è un analista (anche se qualche analisi si sforza di farla); non è un poeta (anche se ci sono delle parti straziantemente poetiche nel libro) e non è un giornalista (per quanto alcuni capitoli abbiano un crudo taglio da cronista, e il libro stesso sia scandito, minuto per minuto, come una telecronaca dell’orrore sull’asse New York – Parigi).
Frédéric Beigbeder è solo uno scrittore. Un piccolo, inutile e volgare scrittore, che ha sentito il bisogno di scrivere nel disperato tentativo di spiegarsi l’inspiegabile, di raccontare l’irraccontabile. Abbiamo visto tutti le immagini, fino alla nausea: le esplosioni, le grida, i crolli, le immense nuvole di fumo e polveri che avvolgevano la skyline di New York, i pompieri coperti di cemento polverizzato, e ancora, i corpi che volavano giù dalle torri, l’impotenza dei soccorritori, l’attonita osservazione della fine, con quei due colossi di quattrocento e passa metri che si sgretolavano come castelli di sabbia. Come può un romanzo raccontare tutto questo? E non è immorale pensare di poterlo fare? Sì, certo che lo è: infatti, Beigbeder è uno scrittore immorale e osceno, un bambino viziato e mai cresciuto che usa la scrittura per sfogare la sua rabbia e la sua frustrazione, anche quella squisitamente personale per essere stato lasciato dalla fidanzata, o per le difficoltà che incontra nel tentativo di essere un buon padre per sua figlia, nata da pochi anni.
E a che pro inventarsi un personaggio – l’immobiliarista texano arricchito e vuotamente edonista Carthew Yorston – che ricopra il ruolo di vittima dell’attentato? A che pro, oltretutto, inventarsi i suoi due figli, innocenti bambini coinvolti con lui nell’impossibilità della fuga dalla Torre in fiamme? A che pro cercare di raccontare quello che potrebbe essere successo in quell’altissimo ristorante, “Windows on the World”, alle persone che vi rimasero intrappolate, con il fuoco sotto i piedi e nessuna possibilità di scendere se non lanciandosi dalle finestre? Come fa questo libro, in cui i capitoli sul bohémien Beigbeder si alternano a quelli sul disperato Yorston e i suoi figli, a funzionare? Come fa a farsi leggere con interesse?
Non lo so, sinceramente, eppure è proprio quello che succede: la scrittura di Beigbeder parte in sordina, tra un sospetto di supponenza e un’alzata di sopracciglio, ma poi entra nel lettore e lo scava dall’interno, lo riporta a quel giorno, svela (inventandolo) qualche dettaglio atroce, e inventa (svelandola) qualche insospettabile relazione tra la Storia e le storie, tra i fatti e le loro molteplici interpretazioni. In qualche modo, questo impossibile libro diventa possibile, e sensato, più di molte futili elucubrazioni ossessionate più dalla volontà di apparire equilibrate ed equidistanti, o meglio, come si direbbe oggi, a ventidue anni da quell’11 settembre, “inclusive”.
Ebbene, di inclusivo Beigbeder non ha nulla, tranne la feroce volontà di capire, volontà frustrata in partenza ma che non gli ha impedito di scrivere un libro a suo modo unico, osceno e delicato, eccessivo e sottotono, disperato eppure forse, in qualche misura, consolante. Ma mai conciliante, mai scontato nelle svolte narrative e di pensiero e, soprattutto, mai banale: non è poco.
(Recensione scritta ascoltando gli OneRepublic, “All Fall Down”)
PREGI:
perfetto ibrido tra romanzo (coraggioso, perché inventarsi delle vittime dell’11 settembre e raccontarne efficacemente l’agonia agli ultimi piani di una torre divenuta camino ardente non è certo facile) e racconto autobiografico à la Carrère, in cui l’Io dell’Autore si mette a nudo a rischio di qualche caduta nel patetismo e nell’autocommiserazione, “Windows on the World” è un tentativo riuscito, frutto di una filosofia perfettamente rappresentata dalla citazione riportata qui sotto
DIFETTI:
Beigbeder ha la forza di non abbellirsi e di non incensarsi, ma certo nemmeno si risparmia nel mettersi in scena come intellettuale à la page, che vorrebbe essere “impegnato” e non sempre ci riesce. Qui e là, qualche esagerazione da “romanzo-scandalo” (come la scena di sesso tra gli agenti di borsa poco prima del crollo della Torre Nord) si sarebbe potuta evitare
CITAZIONE:
“I soli soggetti interessanti sono quelli tabù. Bisogna scrivere ciò che è proibito. […] Oggi i libri devono andare là dove la televisione non va. Mostrare l’invisibile, dire l’indicibile. È forse impossibile, ma è la sua ragione d’essere. La letteratura è una missione impossibile.” (pag. 301)
GIUDIZIO SINTETICO: ***
LEGENDA RECENSIONI
Sia per i libri che per i film, adotto nel giudizio sintetico il sistema Mereghetti, che va da 0 a 4 stelline: a 0, ovviamente, i giudizi più negativi, a 4 quelli più positivi, con tutti i possibili gradi intermedi…