LECTIO BREVIS / 175

Testi, pre-testi, divagazioni e spunti minimi intorno a libri letti, riletti, sfogliati

A cura di Roberto Mandile

PUNTATA 175
QUEL RAMO DEL LAGO…
Specchi d’acqua dolce tra crimini, intrighi, malinconie e angosce  

Carter Dickson – IL LAGO D’ORO (1942)

Di cosa parla: Dwight Stanhope, ricco uomo d’affari, ha radunato nella sua eccentrica villa di campagna, dotata persino di un teatro, una variegata compagnia in occasione delle festività natalizie. A turbare l’atmosfera, però, accade un fatto inquietante: una notte, qualcuno si insinua nella casa, con l’intenzione – così pare – di appropriarsi di uno dei preziosi quadri lì custoditi. Qualcosa però va storto e gli ospiti vengono svegliati di soprassalto da un rumore: accorsi sul posto, trovano un uomo mascherato gravemente ferito. Il guaio è che si tratta dello stesso padrone di casa! Cos’è successo davvero e perché Stanhope avrebbe inscenato una tale sceneggiata? A Henry Merrivale il compito di sbrogliare la matassa…

Commento: Pubblicato tra due romanzi decisamente riusciti (Colpite al cuore, buono, e Destare i morti, più che buono), questo libro, il tredicesimo con protagonista il Vecchio H.M., è un discreto pasticcio, di quelli che non mancano nella ricca produzione di Dickson Carr-Carter Dickson. A non funzionare sono proprio quegli elementi che sono i punti di forza dello scrittore americano. A partire dall’enigma, troppo semplice per un autore che è maestro di complicazioni, ma soprattutto fiacco, confuso, fondato su un’idea di per sé non disprezzabile ma presentata in modo nebuloso, come se lo stesso Dickson Carr, non abbastanza convinto della sua validità, avesse deciso di avvolgerla in una caligine di chiacchiere inutili e scene decorative se non irritanti. Non funziona nemmeno l’ambientazione, che pure potrebbe sfruttare due elementi forti come le feste natalizie e la casa di campagna, ma finisce per essere quasi del tutto ininfluente nello sviluppo della storia. Da ultimo, i personaggi: sbiaditi come non mai, pallide ombre appena, di una frivolezza e di un’insignificanza rare. Il tutto raccontato in uno stile che gigioneggia e gira a vuoto arrivando alla lunga ad annoiare il lettore. Probabilmente il materiale era buono, tutt’al più, per un racconto.   

GIUDIZIO: *

Marina Martorana – MORTE SUL VERBANO (2017)

Di cosa parla: Per Teresa Leone il trasferimento da Bari alla provincia di Varese non sembra essere stato traumatico. Sulla sponda lombarda del Lago Maggiore, a Gemonio, vive già suo fratello Rodolfo, che da qualche anno è sprofondato in una cupa depressione. E così Teresa, intenzionata ad aiutarlo, ha aperto nelle vicinanze la sua agenzia di investigazioni. Forte dei suoi agganci e di una decennale collaborazione con le polizie di mezzo mondo, la donna non avrà dunque difficoltà quando si troverà a indagare su una contorta vicenda criminale che la porterà, tra delitti e misteri non risolti, ad avere a che fare con neonazisti camuffati, narcotrafficanti internazionali e non solo…

Commento: Sarà colpa di Camilleri o forse dell’atavico richiamo del campanile, ma è evidente che ormai il filone è consolidato. È quello dei gialli locali: scrittori di libri e sceneggiatori di serie tv ci si dedicano con dedizione ammirevole. Ci prova, in questo romanzo, anche la giornalista (e, va da sé, appassionata di gialli) Marina Martorana, alla quale bisogna riconoscere l’onestà dei propositi, che traspare non solo dal titolo ma dalla nota pubblicata come premessa: “I luoghi dove si articola la vicenda sono reali: città, paesi, ristoranti, bar, località, uffici governativi esistono veramente, benché – nota bene – utilizzati con fantasia, ruoli compresi, per dar corpo alla sceneggiatura”. Segue la bibliografia, anzi la sitografia dei riferimenti alle informazioni artistiche e storiche presenti nel romanzo: l’autrice ha saccheggiato internet, con una preferenza per i siti ufficiali dei comuni. Passi lo scrupolo, ma non è difficile accorgersene, dato che gli excursus, i quali spesso occupano anche due o tre pagine, abbondano e Martorana fa di tutto per non integrarli nella storia, preferendo il “copia e incolla”. Vogliamo credere che l’autrice intendesse conferire spessore culturale alla vicenda gialla. Peccato che, da scrittrice, avrebbe avuto bisogno di attingere da qualche parte anche una trama accettabile, personaggi appena appena credibili, e magari un registro linguistico adeguato (quando i dialoghi di un poliziesco sono spassosi qualcosa non torna, in genere). Ci auguriamo, in ogni caso, che il nobile intento promozionale dichiarato nella quarta di copertina (“Ho scritto questo romanzo anche per far conoscere la meravigliosa e non troppo nota Costa Fiorita, sponda lombarda del Lago Maggiore”) sia stato raggiunto, anche per premiare la coraggiosa scelta di inserire nel romanzo la ricetta del pesce in carpione (di Franca Morlotti, viene precisato!) che l’investigatrice si fa dare in un ristorante da “una signora sui 75 anni” e che l’autrice riporta integralmente a beneficio dei suoi lettori: che le pro loco le rendano merito, che una qualche film commission si prenda a cuore il Verbano e faccia di Teresa Leone il nuovo Montalbano!

GIUDIZIO: °

PRE-TESTI, DIVAGAZIONI
E SPUNTI MINIMI

Il lago, a dispetto dei precedenti che abbiamo scelto, può essere fonte di ispirazione anche di grande letteratura, a partire naturalmente dal caso più illustre, quello del ramo del lago di Como che volge a mezzogiorno. Restando in Italia, e passando dalla prosa alla poesia, salta subito alla mente il luinese Vittorio Sereni, che nel paesaggio lacustre coglie quanto di più gli è familiare, riflettendo quasi nelle sue acque la dolce malinconia di un ritorno a casa, ma afferrando altresì, nella mutabilità delle acque in eterno movimento, il senso della precarietà del tutto: la calma è transitoria, una sospensione che presto, al primo vento, è destinata a spezzarsi, la quiete si colora e viene turbata, di notte, dai fari delle torpediniere della Guardia di Finanza e dal rumore dei treni che vanno altrove, verso il confine con la Svizzera:

Ti distendi e respiri nei colori.
Nel golfo irrequieto,
nei cumuli di carbone irti al sole
sfavilla e s’abbandona
l’estremità del borgo.
Colgo il tuo cuore
se nell’alto silenzio mi commuove
un bisbiglio di gente per le strade.
Morto in tramonti nebbiosi d’altri cieli
sopravvivo alle tue sere celesti,
ai radi battelli del tardi
di luminarie fioriti.
Quando pieghi al sonno
e dài suoni di zoccoli e canzoni
e m’attardo smarrito ai tuoi bivi
m’accendi nel buio d’una piazza
una luce di calma, una vetrina.

Fuggirò quando il vento
investirà le tue rive;
sa la gente del porto quant’è vana
la difesa dei limpidi giorni.

Di notte il paese è frugato dai fari,
lo borda un’insonnia di fuochi
vaganti nella campagna,
un fioco tumulto di lontane
locomotive verso la frontiera.

Ben più desolante è il paesaggio del lago d’Orta che si presenta agli occhi di Eugenio Montale, poeta di mare che offre di quanto gli si presenta alla vista un quadro di desolazione che, come spesso accade nei suoi testi, è suggestiva di un’angoscia più profonda e universale, per quanto qui (siamo nel 1975: la poesia fu pubblicata la prima volta tre giorni dopo la notizia dell’assegnazione a Montale del Nobel) si affacci, specie nel finale, una vena di amara ironia che stempera un po’ la mestizia lasciando spazio a un accenno di sorriso:     

Le Muse stanno appollaiate
sulla balaustrata
appena un filo di brezza sull’acqua
c’è qualche albero illustre
la magnolia il cipresso l’ippocastano
la vecchia villa è scortecciata
da un vetro rotto vedo sofà ammuffiti
e un tavolo da ping-pong. Qui non viene nessuno
da molti anni. Un guardiano era previsto
ma si sa come vanno le previsioni.
È strana l’angoscia che si prova
in questa deserta proda sabbiosa erbosa
dove i salici piangono davvero
e ristagna indeciso tra vita e morte
un intermezzo senza pubblico. È
un’angoscia limbale sempre incerta
tra la catastrofe e l’apoteosi
di una rigogliosa decrepitudine.
Se il bandolo del puzzle più tormentoso
fosse più che un’ubbia
sarebbe strano trovarlo dove neppure un’anguilla
tenta di sopravvivere. Molti anni fa c’era qui
una famiglia inglese. Purtroppo manca il custode
ma forse quegli angeli (angli) non erano così pazzi
da essere custoditi.

Testi citati
Vittorio Sereni – INVERNO A LUINO, in “Frontiera” (1941)
Eugenio Montale – SUL LAGO D’ORTA, in “Quaderno di quattro anni” (1977)