# 339 – Wesley Stace – LA BALLATA DI MISS FORTUNE (Mondadori, 2006, pagg. 547)
1820: quando l’originale e bizzarro Lord Geoffroy Loveall, erede unico di un’enorme fortuna nonché della tenuta di famiglia, Love Hall, trova un neonato su un cumulo di rifiuti alla periferia di Londra e decide di adottarlo, facendolo credere figlio della bibliotecaria Anonyma Wood – che egli regolarmente impalma – l’intera tenuta sembra riprendere vita, nella certezza di un giovane erede che continui la stirpe, e gli invidiosi rami collaterali della famiglia – gli Osbern e i Rakeleigh – che avevano già messo gli occhi sulla mastodontica proprietà con tutte le sue rendite, devono abbassare le pretese e rassegnarsi alla successione. Peccato che Geoffroy sia un uomo molto originale: devastato dal dolore per la perdita dell’amatissima sorellina Dolores, avvenuta più di vent’anni prima, egli decide che il trovatello sarà cresciuto come una bambina, una sorta di “nuova Dolores” sulla quale riversare tutto il suo amore, stavolta paterno. La moglie Anonyma, coltissima bibliotecaria e studiosa dell’opera di una poetessa innovativa e controversa che si firma Mary Day, decide di stare al gioco: al bambino viene messo il nome Rose e viene vestito da bambina e cresciuto, a tutti gli effetti, come femmina. La vita a Love Hall durante l’infanzia è per Rose un paradiso, tra mille agi e con Sarah e Stephen Hamilton – i figli dell’amministratore della proprietà di famiglia – come migliori amici. I problemi si presentano con l’adolescenza, quando Rose comincerà a capire che qualcosa non quadra, nel suo corpo, troppo diverso da quello di Sarah. Chi delle due ha qualcosa di sbagliato? Ed esiste il concetto di giusto o sbagliato, quando si parla di generi? Rose, nata maschio ma cresciuta da femmina, non ha forse diritto a sentirsi tale e a vestirsi come tale, se questo la fa stare meglio? Scoperta la particolare natura dell’erede, però, gli Osbern e i Rakeleigh affinano le armi e cacciano i Loveall dalla loro magione, spingendo la povera Rose sull’orlo del suicidio. Ma dopo un pericolosissimo viaggio in Turchia alla ricerca della fonte Salmacide, legata al mito di Ermafrodito, una nuova Rose, più consapevole di sé e della propria congenita ambiguità, tornerà a rivendicare i propri diritti, spalleggiata dagli amici di sempre nonché da sua madre e da alcuni parenti non corrotti e non avidi. E già che c’è, Rose scoprirà anche chi erano i suoi veri genitori…
Mi sono chiesto a lungo, dopo aver finito di leggere il romanzo, come avrei potuto riassumerlo senza il rischio di farlo sembrare confuso e velleitario (perché in fondo non lo è) o, peggio, ideologico (anche in questo caso, il libro non lo è). Non so se ci sono riuscito, ma ho cercato di dare perlomeno un’idea della ricchezza narrativa di un libro indubbiamente vivace e originale che, se affrontato senza preconcetti, può divertire e conquistare con i suoi convolvoli di trama e le sue agnizioni da romanzo ottocentesco, con i suoi personaggi un po’ pazzi e scriteriati e i suoi originali spunti di critica sociale e sessuale.
L’ambientazione ottocentesca ha portato qualcuno ad accostarlo addirittura a Dickens, ma io ci andrei piano: è vero che il lavoro di Stace può presentare qualche tratto in comune con le storie tipiche del grande scrittore inglese (in fondo, è la vicenda avventurosa e piena di colpi di scena di un trovatello di probabile origine plebea assurto alle vette della nobiltà britannica, seppur in panni femminili), ma è altrettanto vero che “La ballata di Miss Fortune” (o, più semplicemente, “Misfortune”, in originale) è un romanzo squisitamente contemporaneo per il modo in cui gioca coi cliché e per come sceglie di affrontare problematiche indubbiamente fuori tempo nella prima metà del XIX secolo, in primis quelle legate all’identità sessuale.
Non che di queste tematiche non si parlasse, intendiamoci: il personaggio di Ermafrodito e i tanti miti legati alla misteriosa coesistenza dei generi sessuali sono lì a dimostrarlo. Già il mondo antico era evidentemente affascinato dalle differenze tra i generi, nonché – probabilmente – dalle loro somiglianze, e in questo senso Wesley Stace fa senza dubbio un buon lavoro, costruendo un romanzo in cui l’afflato ideologico non prende mai il sopravvento, pur facendo capolino qui e là: la poetessa Mary Day, ossessione della bibliotecaria Anonyma Wood, è una sorta di super-femminista ante litteram, o meglio, è una teorica della totale uguaglianza tra i sessi, in onore della quale propone nel suo lavoro un immaginifico Paese (che però battezza, con evidente discrimine, “Feminisia”) nel quale tutti, uomini e donne, dovrebbero convivere pacificamente. Un po’ saga familiare e un po’ pamphlet sulla libertà sessuale e di genere, un po’ libro d’avventure (vedi la parte ambientata in Turchia, animata dal bel personaggio di Franny Cooper) e un po’ dramma di identità, al romanzo non mancano neppure un tocco giallo (chi erano i veri genitori di Rose e perché lo hanno abbandonato?) e, soprattutto, un forte afflato fiabesco, ben evidente nelle lunghe descrizioni dell’immensa Love Hall, tenuta da favola piena di pertugi e passaggi segreti, quadri misteriosi e stanze piene di libri, anfratti in cui giocare da bambini e stanze legate a dolorosi ricordi di famiglia.
Insomma, alla fine più che Charles Dickens a me viene in mente… Tim Burton! E sia chiaro: non lo dico con intenzioni denigratorie. Anzi, da grande estimatore di Burton quale sono sempre stato, accosto con rispetto l’immaginario di Wesley Stace – per come l’ho letto e interpretato – a quello del fantasioso cineasta americano, unico che, a mio avviso, potrebbe agevolmente trarre un film da questo libro zeppo di personaggi e vicende, intricatissimo eppure ben raccontato, piacevole nel complesso anche se oggettivamente un po’ troppo lungo. La cifra stilistica di riferimento per Stace, dopotutto, è il grottesco, non certo il realismo – neppure quello un po’ sospeso di stampo dickensiano.
Il suo non è un ‘800 del tutto fiabesco, ma neanche del tutto credibile, e il romanzo finisce per somigliare a una sorta di sottile ucronia che punta a retrodatare determinate conquiste del mondo d’oggi, in primo luogo la “fluidità” tra generi, più ancora che tra orientamenti sessuali. D’altronde, bisogna riconoscere che Stace, per fortuna, non è sperticatamente ideologico, e non scrive il libro per dimostrare alcunché; egli dà, al contrario, l’impressione di essersi innamorato di una storia, e di averla voluta raccontare con estrema cura in tutti i suoi dettagli.
Gli addentellati di questa storia, incidentalmente, riguardano la labile separazione tra generi sessuali, che secondo alcune teorie è dovuta più ai condizionamenti sociali che non ai dati biologici. Ebbene, su questo dibattuto tema l’Autore non si espone troppo e, se da una parte sembra decisamente a favore della controversa proposta di fare dei generi nient’altro che dei caratteri sociali, dall’altra il personaggio stesso di Rose, il/la protagonista indiscusso/a del romanzo, sembra smentire proprio questa tesi, scoprendosi innegabilmente maschio nonostante quattordici anni vissuti da femmina (peraltro non per sua scelta), e oscillando poi – più o meno scientemente – da un genere all’altro per buona parte del libro, fino a optare per una ineffabile ambiguità che, seppur affascinante, certo non risolve il problema.
Problema che non tocca certo a un romanziere affrontare e risolvere, intendiamoci; problema che, anzi, ha in sé i crismi di una certa artificiosità, perché la vera questione non è tanto che ogni individuo possa decidere come e quando vuole a quale genere sentirsi più vicino, bensì che vengano perlomeno ridotti i preconcetti legati a un genere piuttosto che all’altro (per parlar chiaro, il fatto che alle femmine debba per forza piacere vestirsi di rosa e giocare con le bambole e ai maschi vestirsi di azzurro e giocare coi soldatini).
E il romanzo di Stace, dopotutto, si lascia leggere con un certo piacere nonostante dimensioni eccessive e personaggi che, ahimè troppo spesso, sconfinano nel grottesco e sembrano trascinare il lettore nel mondo de “La sposa cadavere” o di qualche altro bel film in “passo-uno” di Tim Burton. Nulla di male in questo, ma si arriva alla fine decisamente un po’ estenuati.
(Recensione scritta ascoltando i Genesis, “The Fountain of Salmacis”)
PREGI:
l’ambigua figura del/della protagonista, Rose, ma anche di suo “padre” Geoffroy, sono molto ben descritte; belli certi snodi di trama e interessante il blocco ambientato in Turchia, come anche il contesto sospeso tra realtà e fiaba dell’intera vicenda
DIFETTI:
troppo lungo e particolareggiato, non sempre facilissimo da seguire per via della quantità di personaggi e di nomi, è un romanzone d’altri tempi su temi moderni che indubbiamente spicca per originalità nel panorama editoriale, ma che non convince fino in fondo. Non so se sia colpa dell’edizione italiana, ma l’albero genealogico dei Loveall pubblicato in apertura, che sarebbe servito come il pane a orientarsi tra avi e trisavoli, è praticamente illeggibile: chi ha scelto un carattere tanto assurdo?
CITAZIONE:
“Per Mary Day la separazione dei due sessi rappresentava un deterioramento dalla perfezione originaria e dalla fecondità di una sessualità immaginata indivisa. […] A Mary Day questo suggeriva un tempo dopo la vita e aldilà della morte, un’età dell’oro, un luogo in cui uomini e donne potevano esistere nell’uguaglianza. Lo chiamò Feminisia.” (pag. 108)
GIUDIZIO SINTETICO: **
LEGENDA RECENSIONI
Sia per i libri che per i film, adotto nel giudizio sintetico il sistema Mereghetti, che va da 0 a 4 stelline: a 0, ovviamente, i giudizi più negativi, a 4 quelli più positivi, con tutti i possibili gradi intermedi…