# 290 – Roberto Bolaño – NOTTURNO CILENO (Adelphi, 2016, ediz. orig. 2000, pagg. 123)
L’anziano prete cileno Sebastián Urrutia Lacroix, in gioventù letterato di qualche fama e frequentatore dei salotti buoni di Santiago sotto il regime di Pinochet, e in particolare di quello del potentissimo critico letterario Farewell, sembra in punto di morte. Nella notte, appoggiato a un gomito nel suo letto di sofferenza, egli rievoca l’incontro con un “giovane invecchiato” (presumibilmente lo stesso Bolaño) che gli avrebbe mosso delle pesantissime, inequivocabili accuse di collusione col regime militare. Tentando di difendere sé stesso e la propria onorabilità, don Sebastián rievoca i suoi inizi come letterato (conobbe anche Pablo Neruda prima che vincesse il Nobel) e la sua affermazione sotto il regime di Pinochet grazie agli incarichi assegnatigli da due misteriosi individui, il signor Aurap e il signor Oido. Pur non ignorando le brutalità della dittatura, don Sebastián vi ha sempre anteposto l’amore per la Patria e, sinceramente convinto di agire per il bene, ha accettato di tenere lezioni private di marxismo per Pinochet e la sua cerchia di generali, nonché di prendere parte agli incontri clandestini a casa di una velleitaria scrittrice femminista, María Canales, ignaro delle torture e dei sequestri che si consumavano nelle segrete di quella stessa, spettrale villa. Ma in fondo, riflette don Sebastián in tono assolutorio, c’erano “gli artisti, gli scrittori. Che epoca!” Basterà questa veemente e calcolata autodifesa a placare gli ardori del “giovane invecchiato” che vuol fare i conti con la generazione dei padri che hanno reso possibile il golpe dei Generali?
L’ultimo romanzo in ordine di tempo di Roberto Bolaño (1953-2003) è un regolamento di conti acre e feroce con un’intera generazione, ed è l’ennesima sottolineatura di un gap generazionale che ha spaccato la cultura cilena del Novecento: quello che divide chi ha pronamente accettato il regime, cogliendo persino, durante gli anni di Pinochet, i frutti del successo letterario o economico, da chi invece ha scelto l’esilio pur di non piegarsi, ed è il caso dello stesso Bolaño, che visse dapprima a Città del Messico, quindi a Barcellona.
Non è un caso che il protagonista e voce narrante di questo ambiguo romanzo sia un prete: attraverso questa figura volutamente modesta, che si addossa alle pareti e si riveste di letteratura per minimizzare la propria partecipazione ai riti di regime, Bolaño muove una precisa accusa al potere ecclesiastico e ne svela la collusione con la politica di un Paese contraddittorio e lacerato come il Cile. Allo stesso tempo, però, l’autodifesa di padre Urrutia Lacroix ha un che di convincente, perlomeno nella misura in cui si appella al patriottismo e all’amore per la cultura letteraria, di cui la figura quasi mitologica di Pablo Neruda si fa simbolo assoluto, col suo premio Nobel che dà lustro a un intero Paese e a un popolo divisi e combattuti. Bolaño non fa cronaca, s’intende: non è il suo mestiere, e non è il suo stile. Scrittore immaginifico e visionario, egli si trova a proprio agio nella descrizione degli stati d’animo, complessi e indecifrabili, ed è maestro nel dispiegare fantasmi e ossessioni senza nome, che prendono corpo in scene potenti, visionarie e a tratti grottesche (si pensi al viaggio di padre Sebastián in Europa, alla scoperta dei sistemi per preservare chiese e monumenti dalle deiezioni dei piccioni!) non necessariamente contestualizzate, non inserite in una “trama” classicamente intesa.
Certo, il libro rievoca un po’ tutta la storia letteraria del Cile attraverso i governi Allende e Pinochet, ma non lo fa con un procedere pedissequo, bensì con salti di memoria, evocazioni improvvise, impressioni, squarci di consapevolezza.
E se la facile simbologia dei signori Aurap e Oido (puerili anagrammi di Paura e Odio) fa un po’ storcere il naso al lettore, va ammesso che la potenza di certe immagini e di certi passaggi, che di razionale e cronachistico sembrano non avere nulla, non lascia indifferenti. Come sempre in Bolaño, la scrittura è densa e saporita, godibile, eppure a tratti appare vuota, formale, provocatoria più per ragionamento che per effettiva esigenza, come se l’Autore non fosse esente da una certa tendenza a cedere alla maniera di sé stesso.
Certo, si potrebbe obiettare che ogni “stile” ben riconoscibile sia una specie di “maniera di sé stessi”, ma in Roberto Bolaño continua a esserci qualcosa che non va, qualcosa che non si chiarisce e che, probabilmente, è ormai destinato a non chiarirsi più, un misto di astuzia editoriale e scrittoria che, pur non avendo in sé niente di male, finisce per togliere valore a ogni opera, almeno agli occhi di un lettore come me, che predilige Autori nei quali lo stile non è mai scisso da una profonda capacità di produrre contenuti, riflessioni, provocazioni. Proprio quello che spesso sembra mancare a Bolaño, scrittore affascinante e consigliabile, per carità, ma forse, dopotutto, vittima della propria stessa, costituzionale ambiguità, bravissimo a confezionare libri accattivanti e visionari al termine dei quali, però, non può che comparire sul volto del lettore una piccola significativa smorfia, le labbra all’ingiù, accompagnate dal pensiero: “Embé?”
Lasciano davvero il segno questi libri? O si limitano ad ammantarsi nel loro stesso mistero, mandando in fregola pletore di editori e di lettori? Non sono in grado di rispondere. So solo che Bolaño continuerò a leggerlo, man mano che lo troverò sugli scaffali, perché non ho ancora letto tutto e certo lo ritengo meritevole. Ma da qui ad andare in visibilio, purtroppo, ce ne passa…
(Recensione scritta ascoltando Fryderyk Chopin, “Notturno, Op.9 n.2 in Mi bemolle maggiore”)
PREGI:
una scrittura consapevole e tagliente, capace di dare vita a un Io narrante ambiguo e inquietante, e un arco narrativo ben padroneggiato e perfetto nelle dimensioni, con i consueti punti di merito legati alle scene più visionare e immaginifiche (su tutte, il viaggio a tappe tra chiese europee con parroci dotati di falchi da caccia!)
DIFETTI:
certe simbologie sono veramente infantili (Aurap e Oido?) e resta il tallone d’Achille di Bolaño: una certa, colpevole ambiguità di fondo che non permette mai di decidere se si è in presenza del romanzo della maturità di un genio o dell’ennesimo libro furbetto di un abile mestierante
CITAZIONE:
“Può un uomo sapere, sempre, cosa è bene e cosa è male?” (pag. 93)
GIUDIZIO SINTETICO: **½
LEGENDA RECENSIONI
Sia per i libri che per i film, adotto nel giudizio sintetico il sistema Mereghetti, che va da 0 a 4 stelline: a 0, ovviamente, i giudizi più negativi, a 4 quelli più positivi, con tutti i possibili gradi intermedi…