LECTIO BREVIS / 139

Testi, pre-testi, divagazioni e spunti minimi intorno a libri letti, riletti, sfogliati

A cura di Roberto Mandile

PUNTATA 139
VITA E MORTE IN BANCA
La diffidenza nei confronti delle banche è giustificata? E lavorare in banca è vivere?

R. Austin Freeman – LA SVISTA DEL SIGNOR POTTERMACK (1930)

Di cosa parla: Il signor Pottermack ha un problema: si chiama Lewson, è il direttore di una filiale di provincia di una banca, e da tempo lo ricatta. All’ennesima richiesta di denaro, Pottermack decide che è ora di porre fine a tutto. Quanto Lewson si presenta nel giardino di casa sua, il piano per liberarsi di lui è pronto: per realizzarlo servono un pozzo nascosto, una buona dose di sangue freddo e una serie di accorgimenti. Ma il delitto perfetto non esiste, almeno per il dottor Thorndyke…  

Commento: C’è spazio per facili ironie: un direttore di banca che ricatta di nascosto e in modo illegale è sempre più onesto di un direttore di banca che truffa nell’adempimento delle sue ordinarie attività lavorative. Ma l’universo dei gialli sa essere abbastanza equo e non solo, in genere, il crimine non paga, ma chi delinque non è giudicato in base alla sua estrazione o posizione sociale. È regola, però, inderogabile che i crimini rispettino una gerarchia chiara, per cui, ad esempio, il ricatto è abietto, ma l’assassinio è peggio. Ora, per noi fanatici del tenente Colombo, la tecnica dell’inverted mystery è sempre fonte di diletto. In questo caso, però, un’evidente prolissità e una certa ripetitività, unite alla cieca fede positivista del detective, prototipo dello scienziato investigatore, e alla mancanza di cattiveria dell’assassino, offuscano l’indubbia solidità della storia e la precisione della narrazione. Il risultato è che il bancario risulta più odioso del signor Pottermack e, soprattutto, il dottor Thorndyke pare più interessato a dimostrare con metodo indubitabilmente scientifico le sue tesi che a incastrare un omicida. I veri cattivi alla fin fine sono le banche e coloro che le dirigono.   

GIUDIZIO: **

Giuseppe Pontiggia – LA MORTE IN BANCA (1959)

Di cosa parla: A diciassette anni Carabba ha già conseguito la maturità classica e, spinto da necessità economiche, si presenta a un colloquio di lavoro in una banca e viene assunto come impiegato. L’inserimento in un ambiente così diverso da quello scolastico disorienta il giovane, che si sente inizialmente inadeguato. Quando, dopo le prime settimane, le cose incominciano a migliorare, Carabba prova un momento di euforia e pensa di poter conciliare il lavoro con la prosecuzione degli studi, all’università. Ma ben presto, dopo la delusione per un esame, deve rendersi conto della propria incapacità di adeguarsi alla vita da impiegato, alle cui abitudini non è possibile sottrarsi davvero, anzi…

Commento: Il primo libro di Pontiggia può essere letto, superficialmente, come un piccolo apologo vagamente autobiografico (anche l’autore lavorò al Credito Italiano per un decennio, da giovanissimo) sull’alienazione del lavoro moderno, specialmente di quello ripetitivo e monotono di un impiegato di banca. Ma, come ha osservato Mario Barenghi, non solo lo scrittore mostra una piena consapevolezza della tradizione letteraria tardo-ottocentesca e novecentesca – dallo Svevo di Una vita (l’autore triestino era stato oggetto della tesi di laurea di Pontiggia) al Kafka de La metamorfosi – che aveva tratteggiato nella figura dell’impiegato il modello stesso dell’inettitudine di vivere che trova in genere tragico compimento nel rifiuto sociale, nell’esclusione, nella morte appunto (in banca o no, poco importa). Pontiggia, che sceglie la misura del romanzo breve o del racconto lungo (come Kafka) e uno stile essenziale, lapidario, persino spigoloso, per quanto già curatissimo, propone attraverso il giovane Carabba anche un itinerario di formazione che porta il protagonista, fin dall’inizio più maturo della sua età, a fare i conti con una realtà adulta che non pare in grado di vedersi da fuori e che, nel perpetuare gli stanchi riti di un lavoro privo di senso e nell’omaggiare soltanto i vantaggi derivanti dalla carriera o dalle gerarchie consolidate, sprofonda inconsapevolmente in una condizione priva di alternative. Il pessimismo di Pontiggia, che qui non è stemperato, come sarà in opere successive, dall’ironia, è radicale: l’angoscia della morte in banca, “che poi era una delle infiniti morti nella vita”, sopraffà Carabba, rendendolo una sorta di antieroe che, nella sua modestia, non può fare altro che prendere atto della propria condizione, senza mostrare velleità vere di ribellione ma anche senza precipitare nell’abisso in cui, per tornare ai modelli di cui si diceva, finivano Alfonso Nitti o Gregor Samsa. Il che, tutto considerato e anche se il respiro del racconto forse è un po’ corto, non è poco, specie per un autore che, quando il libro fu pubblicato, aveva venticinque anni.

GIUDIZIO: **½

PRE-TESTI, DIVAGAZIONI
E SPUNTI MINIMI

La pessima fama delle banche non è forse antica quanto le banche stesse, ma non è certo recente. Almeno da quando si è assestata la società borghese, nel cui contesto comincia ad affiorare il problema delle disuguaglianze e delle differenze di classe, le banche diventano, da un lato, una delle sedi di un potere economico fondato sull’ingiustizia e sull’oppressione dei deboli, dall’altro uno dei luoghi per eccellenza del lavoro moderno, meccanico e alienante. Per quanto riguarda il primo aspetto, basterebbe leggere cosa dice Giuseppe Gioachino Belli in un suo sonetto del 1834:

Dar Popolo pe annà a li Du’ Mascelli
Su la Piazza de Spaggna a mmano manca
In fonno a la Piazzetta Miggnanelli,
Ve viè de petto una facciata bbianca.

Llì, a llettere ppiù ggranne de ggirelli
Tutti indorati, sce sta scritto: Bbanca
Romana. Ebbè, ccurrete, poverelli,
Ché de prìffete llì nnun ce n’amanca.

Sta bbanca inzomma è una scuperta nova
Pe ddispenzà cquadrini a cchi li chiede
In qualunque bbisoggno s’aritrova.

Sortanto sc’è cche sta Bbanca Romana,
Com’ha ddetto quarcuno che cciaggnéde,
Capissce poco la lingua itajjana.

Sul fronte del lavoro in banca, il punto di riferimento letterario imprescindibile – anche per Giuseppe Pontiggia, come detto – resta Italo Svevo, che in una banca passò, malvolentieri, diciotto anni (anche Melville lavorò in una banca: Bartleby lo scrivano ne fu il risultato). In Una vita, il suo primo e del tutto incompreso romanzo, lo scrittore triestino offre, nella figura del protagonista, Alfonso Nitti, che lascia la campagna per trasferirsi in città e impiegarsi nella banca Maller, la sintesi più moderna del malessere che attanaglia l’uomo alle prese con la sua inettitudine: le grette condizioni del lavoro in banca non possono scendere a patti con una natura incline alla fantasticheria, al bisogno di evasione, di compiutezza, ma al contempo incapace di dare realizzazione a qualsivoglia ambizione. E così, a Nitti non resta che sognare un mondo diverso, una posizione migliore, un riscatto che gli appare tanto necessario per non essere soffocato dal grigiore della quotidianità quanto inattuabile, al punto che, anche nel suo sogno, non c’è modo di capovolgere fino in fondo la realtà, e così egli finisce per trattare i suoi superiori con dolcezza, compromettendo sul nascere ogni concreta possibilità di liberazione dai meccanismi alienanti del lavoro in banca:   

Dacché era impiegato, il suo ricco organismo, che non aveva piú lo sfogo della fatica di braccia e di gambe da campagnolo, e che non ne trovava sufficiente nel misero lavorio intellettuale dell’impiegato, si contentava facendo fabbricare dal cervello dei mondi intieri. Centro dei suoi sogni era lui stesso, padrone di sé, ricco, felice. Aveva delle ambizioni di cui consapevole a pieno non era che quando sognava. Non gli bastava fare di sé una persona sovranamente intelligente e ricca. Mutava il padre, non facendolo risuscitare, in un nobile e ricco che per amore aveva sposato la madre, la quale anche nel sogno lasciava quale era, tanto le voleva bene. Il padre aveva quasi del tutto dimenticato e ne approfittava per procurarsi per mezzo suo il sangue turchino di cui il suo sogno abbisognava. Con questo sangue nelle vene e con quelle ricchezze si imbatteva in Maller, in Sanneo, in Cellani; naturalmente le parti del tutto invertite. Non era piú lui il timido, erano costoro! Ma egli li trattava con dolcezza, davvero nobilmente, non come essi trattavano lui.

Testi citati
Giuseppe Gioachino Belli – LA CASSA DE SCONTO (1834)
Italo Svevo – UNA VITA, cap. II (1892)