LECTIO BREVIS / 119

Testi, pre-testi, divagazioni e spunti minimi intorno a libri letti, riletti, sfogliati

A cura di Roberto Mandile

PUNTATA 119
LA VIOLENZA È UMANA
Tra mondi apocalittici e paradisi del crimine, l’oscura fascinazione della brutalità

Jack London – LA PESTE SCARLATTA (1912)

Di cosa parla: 2073. Sono passati sessant’anni esatti dal 2013, l’anno in cui è scoppiata ed è dilagata in fretta per il mondo un’epidemia di peste scarlatta, capace in tempi rapidi di cancellare dalla terra quasi l’intera umanità. Pochissimi i superstiti: tra questi l’anziano James Howard Smith, un tempo professore di letteratura inglese in un’università della California, il quale si ritrova a raccontare e a spiegare a un gruppo di ragazzi selvaggi, nipoti degli altri sopravvissuti, come sia stato possibile che la civiltà venisse distrutta tanto repentinamente da provocare una regressione all’età della pietra…

Commento: La letteratura vede lontano, si dice spesso, specialmente quando la si guarda attraverso un cannocchiale, che deforma le distanze. La fantascienza, poi, è il luogo d’elezione delle presunte capacità profetiche che attribuiamo agli scrittori. È questa la lettura più immediata, ma anche più corriva, di questo romanzo breve che si iscrive a pieno titolo nel filone apocalittico che immagina un’umanità ridotta ai minimi termini da eventi catastrofici in un futuro più o meno remoto (i titoli sono numerosissimi, sia prima sia, soprattutto, dopo London: tra i più noti e citati La strada di Cormac McCarthy; tra i nostri preferiti spicca Dissipatio H.G. di Guido Morselli). In realtà l’interesse del romanzo non sta tanto nella capacità di London di indovinare il futuro (l’autore ci va vicino nel calcolo degli abitanti della Terra, ma non prevede nessuno degli sviluppi tecnologici nel campo delle comunicazioni, ferme ancora ai giornali), quanto nel fatto che il libro delinei, all’interno dell’omologazione prodotta dalla pandemia, un’umanità alla rovescia, nella quale i rapporti di classe sono stravolti e tutto è dominato da una violenza e da una barbarie che finiscono per qualificarsi come l’essenza stessa della razza cui tutti apparteniamo. In questo l’intuizione pessimistica di London – e colpisce che il vecchio protagonista e narratore non riesca, per quanto si sforzi, a comunicare ai giovani nipoti, già irrimediabilmente inselvatichiti, il senso stesso dell’antica civiltà – fa il paio con quella che apre un capolavoro della fantascienza cinematografica (non apocalittica, almeno stricto sensu): 2001: Odissea nello spazio di Stanley Kubrick.       

GIUDIZIO: ***

James G. Ballard – COCAINE NIGHTS (1996)

Di cosa parla: Charles Prentice, giornalista e scrittore di viaggi, è costretto a recarsi in Spagna, nella località di Estrella de Mar, nella Costa del Sol: suo fratello Frank, che dirige il locale Club Nautico, è stato arrestato con l’accusa di essere il responsabile dello spaventoso incendio che ha provocato la morte di ben cinque persone. A stupire Charles, inizialmente, è il fatto che Frank si sia dichiarato colpevole del crimine: intenzionato a dimostrarne l’innocenza, inizia a svolgere delle indagini. Ma ben presto si accorgerà che in quello che ha tutta l’aria di un tranquillo villaggio popolato soprattutto da turisti inglesi i crimini sembrano diventati un passatempo collettivo e tutti paiono subire l’ambigua influenza dell’ex tennista Bobby Crawford…

Commento: Considerato il primo libro di una tetralogia di romanzi accomunati da una certa affinità tematica, è senz’altro un’opera tra le più interessanti di Ballard. Ricollegandosi, per certi aspetti, a motivi già sviluppati in precedenza (il modo in cui la violenza si afferma all’interno dei diversi sistemi sociali era già al centro de Il condominio, risalente a una ventina d’anni prima, ma spunti simili affiorano anche ne L’isola di cemento, 1974, o nel più recente racconto lungo Un gioco da bambini, 1988), Ballard mette a fuoco con straordinaria lucidità l’elemento dominante nella società del benessere della fine del secolo scorso: il bisogno continuo di divertimento come slancio vitale. Per scampare alla monotonia della villeggiatura, alla catatonica passività cui, ad esempio, si riducono nel romanzo gli abitanti della Residencia Costasol – dediti alla visione ossessiva degli schermi tv in una sorta di trance generale, come in un quadro di Hopper, precisa Ballard – prima di essere risvegliati alla vita e finire per replicare il modello della vicina Estrella de Mar, occorre accettare la trasgressione come norma collettiva: è così che il confine tra quelli che possono essere vizi privati o piaceri personali, come girare film pornografici o consumare droga, e quelli che dovrebbero essere crimini pubblici, come stupri, atti di vandalismo, furti, aggressioni e persino omicidi, svanisce. Il pregio maggiore del libro è che temi di tale caratura trovano spazio in una trama a tutti gli effetti poliziesca, con la scoperta del colpevole che arriva, come da copione, solo alla fine. Ennesima dimostrazione che la buona letteratura (e il romanzo, neanche a dirlo, è scritto benissimo) può valere più di cento trattati di sociologia.     

GIUDIZIO: ***½

PRE-TESTI, DIVAGAZIONI
E SPUNTI MINIMI

La fascinazione della violenza, che sia un regresso della civiltà (come lascia intendere London) o un’evoluzione naturale e persino inevitabile della società (come, con più profetica lucidità, indica Ballard), è in ogni caso un dato innegabile e per molti versi costitutivo dell’umanità. Ne dà già testimonianza, in uno dei suoi testi più celebri (e più antologizzati e tradotti dai liceali), Seneca, che, da ex precettore di Nerone e da bravo filosofo alla ricerca della felicità (“si sa che la gente dà buoni consigli…”), ammonisce Lucilio, destinatario delle sue lettere, sulla pericolosità di frequentare la folla, specie quella che si ammassa agli spettacoli più violenti, che sono contagiosi solo su chi non ha un animo forte:

“Verso mezzogiorno sono capitato per caso a uno spettacolo; mi attendevo qualche scenetta comica, qualche battuta spiritosa, un momento di distensione che desse pace agli occhi dopo tanto sangue. Tutto al contrario: di fronte a questi i combattimenti precedenti erano atti di pietà; ora niente più scherzi, ma veri e propri omicidi. I gladiatori non hanno nulla con cui proteggersi; tutto il corpo è esposto ai colpi e questi non vanno mai a vuoto. La gente per lo più preferisce tali spettacoli alle coppie normali di gladiatori o a quelle su richiesta del popolo. E perché no? Non hanno elmo né scudo contro la lama. Perché schermi protettivi? Perché virtuosismi? Tutto ciò ritarda la morte. Al mattino gli uomini sono gettati in pasto ai leoni e agli orsi, al pomeriggio ai loro spettatori. Chiedono che gli assassini siano gettati in pasto ad altri assassini e tengono in serbo il vincitore per un’altra strage; il risultato ultimo per chi combatte è la morte; i mezzi con cui si procede sono il ferro e il fuoco. E questo avviene mentre l’arena è vuota. “Ma costui ha rubato, ha ammazzato”. E allora? Ha ucciso e perciò merita di subire questa punizione: ma tu, povero diavolo, di che cosa sei colpevole per meritare di assistere a questo spettacolo? “Uccidi, frusta, brucia! Perché ha tanta paura a slanciarsi contro la spada? Perché colpisce con poca audacia? Perché va incontro alla morte poco volentieri? Lo si faccia combattere a sferzate, che si feriscano a vicenda affrontandosi a petto nudo.” C’è l’intervallo: “Si scanni qualcuno, intanto, per far passare il tempo.” Non capite nemmeno questo, che i cattivi esempi si ritorcono su chi li dà? Ringraziate gli dei perché insegnate a essere crudele a uno che non può imparare”.

Ma, anche in epoche molto più recenti, la violenza ha esercitato un’attrazione irresistibile, al punto che intorno a criminali famosi si è creato un interesse spesso patologico sfociato non di rado in fenomeni di ammirazione generale, amplificati dai mezzi di comunicazione in un circolo vizioso autoalimentantesi. È la fenomenologia che descrive, in modo magistrale, Robert Musil ne L’uomo senza qualità riferendo del caso Moosbrugger, il falegname internato in manicomio per reati di violenza a sfondo sessuale, culminati con lo stupro e l’assassinio di una prostituta. Intorno alla vicenda si genera una morbosa attenzione da parte dei giornali e dell’opinione pubblica; l’ossessione è talmente generalizzata da spingere Ulrich, il protagonista del romanzo, a ritenere che “se l’umanità fosse capace di fare un sogno collettivo, sognerebbe Moosbrugger”:

“Perché Moosbrugger aveva ammazzato una donna, una prostituta d’infimo grado, in modo raccapricciante. I cronisti avevano descritto minutamente una ferita al collo che andava dalla gola alla nuca, due coltellate al petto che attraversavano il cuore, due al lato sinistro del dorso, e la recisione delle mammelle che erano quasi staccate; essi esprimevano, sì, tutta la loro esecrazione, ma non rinunziavano a elencare anche le trentacinque trafitture nel ventre e il taglio che si estendeva dall’ombelico fin quasi alla colonna vertebrale e si prolungava in una quantità di tagli più piccoli su per la schiena, mentre il collo recava tracce di strangolamento. Da simili atrocità i cronisti non sapevano come ritornare al viso bonario di Moosbrugger, quantunque anche loro fossero bravissime persone e tuttavia avessero descritto il delitto con realismo e competenza ed evidentemente col fiato mozzato dall’eccitazione. Anche dell’ovvia supposizione che si fosse di fronte a un alienato mentale – giacché Moosbrugger era stato ripetutamente in manicomio per delitti analoghi – fecero poco uso, sebbene un buon giornalista sia oggi assai esperto di tali questioni; sembrava che per adesso rifuggissero ancora dal rinunziare all’idea dell’omicida malvagio e a trasferire l’accaduto dal proprio mondo a quello della patologia; in questo concordavano con gli psichiatri che avevano costantemente oscillato nel dichiarare l’assassino ora sano ora irresponsabile.

Avvenne anche lo strano fatto che i morbosi eccessi di Moosbrugger, appena resi noti, diedero a migliaia di persone use a biasimare la mania scandalistica dei giornali la sensazione: “ecco finalmente qualcosa d’interessante”, dai funzionari indaffarati agli adolescenti di buona famiglia e alle donne di casa rannuvolate da cure domestiche. Tutti costoro sospiravano e crollavano il capo su una simile mostruosità, ma ne erano assai più intimamente presi che dal loro compito umano. In quei giorni poteva addirittura succedere che nell’andare a letto un irreprensibile capodivisione o procuratore di banca dicesse all’assonnata moglie: “Che cosa faresti adesso, se io fossi un Moosbrugger…?”

Testi citati:
Seneca – LETTERE A LUCILIO, I 7 – traduzione di Caterina Barone (I secolo)
Robert Musil – L’UOMO SENZA QUALITÀ, I 18 – traduzione di Anita Rho (1930)