LECTIO BREVIS / 166

Testi, pre-testi, divagazioni e spunti minimi intorno a libri letti, riletti, sfogliati

A cura di Roberto Mandile

PUNTATA 166
AMORI DIFFICILI
Relazioni morbose, impossibili, disperate

Patricia Highsmith – IL GRIDO DELLA CIVETTA (1962)

Di cosa parla: Robert Forester, ingegnere aeronautico, attraversa un momento complicato: da qualche tempo, si è messo a spiare, non visto, una ragazza tranquilla, nella cui vita, apparentemente regolare e serena, intuisce il miraggio di una felicità per lui irraggiungibile. Un giorno, però, Jenny Thierolf – così si chiama la ragazza – si accorge di Robert e, spinta da un misto di curiosità e di attrazione, decide di approfondire la conoscenza con l’uomo. I due iniziano a frequentarsi, ma non hanno fatto i conti con Greg, il fidanzato di Jenny, e Nickie, l’ex moglie di Robert, che paiono determinati a rendere loro la vita impossibile, costi quel che costi…

Commento: Patricia Highsmith ama e sa tenere il lettore sulle spine. Sono le basi della suspense – si dirà – e su questo la scrittrice americana non ha da imparare da nessuno. Le pagine scorrono, la tensione si accumula, le domande si accavallano. E si resta pazienti in attesa che qualcosa accada, che il culmine giunga. È così anche in questo romanzo, nel quale, superato – non senza un certo sconcerto – lo snodo di partenza (e soprassedendo sulla fin troppo benevola accoglienza riservata da Jenny a Robert, quando lei si accorge che lui la spiava da tempo), i ruoli si delineano ben presto molto chiaramente: i cattivi sono, senz’ombra di dubbio, Greg e Nickie (lui è quello che oggi si chiamerebbe uno stalker, lei è una ninfomane pazza) e Jenny e Robert le loro vittime. Tutto l’interesse, dunque, viene convogliato, dunque sui tentativi della diabolica coppia di rovinare l’esistenza agli altri due. Le cose funzionano abbastanza bene fino a un certo punto, poi sembra che l’autrice si incarti, come se non sapesse che direzione prendere quando la verità appare chiara a tutti, anche alla polizia, e bisognerebbe trovare una via d’uscita convincente. Purtroppo un paio di errori (uno, macroscopico, arriva troppo presto) vanificano l’interesse del lettore, che assiste a un finale un po’ tirato per i capelli e, comunque, ormai superfluo. Supponiamo che Alfred Hitchcock – che da Sconosciuti in treno, il primo romanzo della scrittrice, trasse L’altro uomo, e che, a sua volta di suspense se ne intendeva – avrebbe avuto qualche appunto da fare. 

GIUDIZIO: **

Italo Calvino – GLI AMORI DIFFICILI (1970)

Di cosa parla: Ci sono, tra le altre, le avventure di un soldato (il fante Tomagra che incontra in treno una vedova), di un bandito (Gim Bolero che, braccato dalla polizia, si rifugia dall’Armanda), di una bagnante (la signora Isotta Barbarino che, durante un bagno in mare, perde il costume), di due sposi (Arturo e Elide, vittime dei loro turni di lavoro). C’è, ancora, la vicenda di una famiglia (marito, moglie e un bambino) alle prese, dopo un trasloco, col problema della formica argentina. E, infine, la storia di un uomo che, trasferitosi in una nuova città, ne scopre il drammatico livello di inquinamento causato da una enorme nube di smog…

Commento: È una raccolta che fa il punto rispetto a una fase cruciale dell’opera di Calvino: quasi tutti i testi (quindici in tutto, divisi in due sezioni) erano già stati pubblicati in precedenza, tra il 1949 e il 1967. La prima parte, che si chiama come tutta la silloge, Gli amori difficili, riunisce dodici racconti, abbastanza brevi, accomunati sotto la medesima intitolazione (L’avventura di…); la seconda, La vita difficile, comprende i due testi più lunghi, La formica argentina e La nuvola di smog. Secondo quanto si legge nella presentazione, anonima ma probabilmente di mano dello stesso autore, la definizione del titolo è “ironica […] perché dove d’amore – o di amori – si tratta, le difficoltà restano molto relative” e “ciò che sta alla base di molte di queste storie è una difficoltà di comunicazione, una zona di silenzio al fondo dei rapporti umani”. Difficili, insomma, non sono tanto gli amori quanto la vita in sé. La vita moderna, che, negli anni Cinquanta (la maggioranza delle novelle risale a questo decennio), Calvino incomincia a vedere come incubatrice di un cambiamento vorticoso e potenzialmente pericoloso, destinato a incidere non tanto o non solo sulla società quanto e in primis sull’individuo. La minaccia è chiarissima nei due racconti conclusivi, e in entrambi ha a che fare con la natura: le formiche da un lato e l’inquinamento dello smog dall’altra.

Ma, a ben guardare, qui, come nella prima parte della raccolta, la crisi riguarda, come s’è detto, gli uomini e le loro, difficili, relazioni. Di più: dal fante Tomagra con il suo approccio erotico tutto cerebrale, al lettore Amedeo, che preferisce i libri alla donna che incontra sulla spiaggia, dal poeta Usnelli che scopre come la bellezza consista in una contemplazione silenziosa, all’automobilista che viaggia di notte in autostrada dopo un litigio telefonico con l’amata, Calvino arriva, pur con sfumature diverse, a decretare la crisi irreversibile della comunicazione stessa, ossia del linguaggio. Nulla è più manipolabile (vedi ancora La formica argentina), volgare, artefatto, inutile della parola: ognuno di noi è solo un segnale, il che significa un disturbo, un inciampo, talora un fastidio per gli altri. La bellezza potrebbe essere una via d’uscita, ma il tentativo di fissare la bellezza nella parola è un’illusione. E così solo chi accede alla consapevolezza ha occasione di vedere da fuori la frenesia di un mondo travolto dai miti della velocità, del guadagno, della salute, della retorica della parola. La lingua di Calvino, di un nitore unico, sa cogliere con un’esattezza e una vitalità visiva ineguagliabili le contraddizioni che, in fondo, si riflettono sulla sua stessa attività di scrittore: il che spiega le evoluzioni, o secondo alcuni le involuzioni, cui andrà incontro la sua opera negli anni Settanta, da Le città invisibili a Il castello dei destini incrociati a Se una notte d’inverno un viaggiatore.

GIUDIZIO: ***

PRE-TESTI, DIVAGAZIONI
E SPUNTI MINIMI

Ogni amore infelice è infelice a modo suo, si potrebbe dire parafrasando Tolstoj. L’infelicità di una vita sarebbe fin troppo facile dedurla dalla fine. Fin troppo facile, dunque, rilevare che la prima affinità tra Cesare Pavese e Antonia Pozzi, due dei grandi scrittori del nostro primo Novecento, è data dal mero dato del suicidio con cui si conclusero le loro esistenze (entrambi, peraltro, per ingestione di barbiturici). Non meno scontato sarebbe osservare come a segnare le loro vite sia stata anche l’esperienza – questa, in verità, assai più comune – di passare attraverso amori difficili, non corrisposti se non impossibili.

Così se la relazione tra Antonia Pozzi, allora studentessa di liceo, e il suo professore di latino e greco, Antonio Maria Cervi, verrà interrotta nel 1933 quando la poetessa aveva ventun anni dopo le imposizioni dei genitori e del padre in particolare, a testimoniare di questo amore impossibile restano comunque le poesie da lei scritte, come questa, composta da Antonia, allora diciassettenne, nel 1929 (le più belle poesie d’amore di Pozzi sono state di recente raccolte da Garzanti nell’antologia Tu sei l’erba e la terra):       

Vieni, mio dolce amico: sulla bianca
e soda strada noi seguiteremo
finché tutta la valle s’inazzurri.
Vieni: è tanto soave camminare
a te d’accanto, anche se tu non m’ami.
C’è tanto verde, intorno, tanto odore
di timo c’è, e sono così ariose,
nell’indorato cielo, le montagne:
è quasi come se anche tu mi amassi.
Arriveremo giù, fino a quel ponte
sorretto dallo scroscio del torrente:
là tu continuerai pel tuo cammino.
Io resterò sul greto, fra i cespugli,
dove l’acqua non giunge, fra le pietre
chiare, rotonde, immote, come dorsi
di una gregge accosciata. Col mio pianto
vitreo, pari a lente che non pecca,
io specchierò e raddoppierò le stelle.

Pasturo, 18 luglio 1929

Non un amore da adolescente, ma una passione adulta, non corrisposta, è all’origine di una raccolta di appena dieci testi che rappresentano il testamento letterario di Cesare Pavese. La raccolta si intitola, come una delle dieci poesie, Verrà la morte e avrà i tuoi occhi, e fu composta tra l’11 marzo e l’11 aprile del 1950, quattro mesi prima che lo scrittore si togliesse la vita; la donna a cui è dedicata è Constance Dowling, attrice americana che recitò in alcuni film italiani e che Pavese aveva conosciuto l’anno prima, nel 1949. Difficile stabilire un rapporto decisivo tra la delusione per l’amore non corrisposto per Constance e il suicidio, ma a leggere versi come questi, cupi e disperati come pochi, è difficile non pensare a quanto sia devastante la forza delle passioni:

Anche la notte ti somiglia,
la notte remota che piange
muta, dentro il cuore profondo,
e le stelle passano stanche.
Una guancia tocca una guancia
è un brivido freddo, qualcuno
si dibatte e t’implora, solo,
sperduto in te, nella tua febbre.

La notte soffre e anela l’alba,
povero cuore che sussulti.
O viso chiuso, buia angoscia,
febbre che rattristi le stelle,
c’è chi come te attende l’alba
scrutando il tuo viso in silenzio.
Sei distesa sotto la notte
come un chiuso orizzonte morto.
Povero cuore che sussulti,
un giorno lontano eri l’alba.

4 aprile 1950

Testi citati
Antonia Pozzi – CANTO RASSEGNATO (1929)
Cesare Pavese – THE NIGHT YOU SLEPT, in “Verrà la morte e avrà i tuoi occhi” (1950)

LEGENDA RECENSIONI
Sia per i libri che per i film, adotto nel giudizio sintetico il sistema Mereghetti, che va da 0 a 4 stelline: a 0, ovviamente, i giudizi più negativi, a 4 quelli più positivi, con tutti i possibili gradi intermedi…

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NON GIUDICABILE con i sistemi ìclassiciî di voto
PESSIMO
QUASI PESSIMO
BRUTTO
BRUTTINO
 
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**1/2
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***1/2
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ACCETTABILE
DISCRETO
BUONO
MOLTO BUONO
CAPOLAVORO