LECTIO BREVIS / 165

Testi, pre-testi, divagazioni e spunti minimi intorno a libri letti, riletti, sfogliati

A cura di Roberto Mandile

PUNTATA 165
GITA IN SCOZIA
Visita guidata fra tradizioni familiari, paesaggi aspri, poeti leggendari e luoghi comuni

Robert Louis Stevenson – WEIR DI HEMISTON (1896)

Di cosa parla: Scozia. Archiebald è l’unico figlio nato dal matrimonio tra il giudice Adam Weir, Lord Presidente della Corte Suprema, e Jean Rutherford, ultima discendente degli antichi “cavalieri di Hermiston”. Dopo la morte della devotissima madre, il giovane Archie si scontra con il padre, del quale arriva a biasimare pubblicamente la condotta tenuta nel corso di un processo conclusosi con la condanna a morte di un povero diavolo. L’insanabile contrasto tra i due è destinato ad aggravarsi quando Archie, allontanato di casa e mandato a trascorrere del tempo nella tenuta di campagna di Hermiston, si innamora di Kirstie, una giovane parente della sua governante…

Commento: «È questo […] il segno distintivo di uno scozzese, a qualunque ceto appartenga; con un atteggiamento verso il passato assolutamente inconcepibile per un inglese, tiene vive e onora la memoria dei suoi antenati, buoni o cattivi che siano; c’è in lui, ardente e perenne, un senso di identità che può abbracciare anche i morti da venti generazioni». Lo Stevenson che non ti aspetti è quello che inizia a scrivere un romanzo d’ambientazione scozzese dopo che, da anni, ha lasciato definitivamente l’Europa e, in seguito a un secondo, breve soggiorno americano, si è stabilito a Samoa, dove, diventato un punto di riferimento per gli isolani, morirà di lì a poco e sarà sepolto con i massimi onori. Il romanzo resta incompiuto ma la parte rimasta (conosciamo a grandi linee la trama, che prometteva anche un omicidio), pur priva della revisione finale, è un degno saggio dell’arte narrativa dell’autore. Convincono soprattutto i capitoli iniziali, con la descrizione della madre di Archie e il contrasto che si delinea, nettissimo, tra il padre, giudice severo e difensore di antiche quanto crudeli tradizioni, e il figlio, giovane tentato da idee nuove, “progressiste” o, quanto meno, umanitarie. Una parte della critica ha sottolineato, sulla scorta degli sviluppi della vicenda che Stevenson anticipò in alcune lettere, come il romanzo avrebbe fatto i conti con la difficoltà di sciogliere le contraddizioni affacciate nella prima parte. Ma, dovendo giudicare quel che c’è e non quel che manca, non si può che apprezzare la capacità dell’autore di mettere a fuoco le psicologie dei personaggi, ma anche la eccezionale bravura nelle descrizioni dei luoghi. In qualche modo, è come se la lontananza fisica abbia acuito la vista di Stevenson che pare cogliere l’essenza della Scozia in un misto tra il forte senso delle tradizioni e l’asprezza del paesaggio: se è vero, come ha osservato Francesco Binni, che il protagonista pare rifiutare l’idea stessa che “la natura dell’uomo è «dual»”, ci sarebbe da chiedersi se, in fondo, non ci sia qualcosa di “scozzese” anche in questo impossibile compromesso tra ragione e sentimento, tra l’adesione a ciò che è giusto e lo slancio passionale (e ribelle) verso l’affermazione ideale di sé. In fondo, è curioso che le opere più note dei maggiori romanzieri scozzesi (tutti di Edimburgo), ossia Walter Scott, Arthur Conan Doyle e appunto Stevenson, siano espressione, per ambientazione e atmosfera (e psicologia?), di un più ampio spirito britannico (se non, addirittura, inglese). Quando finalmente la Scozia rivendica la sua parte, il destino ci mette del suo e il romanzo rimane incompiuto, quasi a dare corpo all’irrimediabile impossibilità di ricomporre le parti in un unico armonico. Il che, a ben vedere, è quanto di più tipicamente stevensionano si possa immaginare.

GIUDIZIO: ***

D.M. Devine – NON C’È RITORNO (1965)

Di cosa parla: Che fine ha fatto Ian Pratt? Senza alcun apparente motivo, il ragazzo è scomparso nel nulla, un mercoledì sera. Dopo essere stato visto uscire dal liceo della cittadina scozzese nel pomeriggio, il sedicenne non ha lasciato tracce di sé. Così, quando la sorella si presenta alla polizia, per l’ispettore Nicolson il mistero è fittissimo, anche per la mancanza di indizi. Le indagini sembrano non approdare a nulla per lunghi mesi, finché non si presenta la possibilità di connettere la scomparsa dello studente al caso irrisolto dell’investimento, avvenuto tempo prima, di una ragazza da parte di un’auto…

Commento: Prima di Twin Peaks, la provincia – quella scozzese in questo caso, e non quella americana – ha sempre fornito spunti per misteri torbidi e cupi intrecci. In questo romanzo – quarto dei tredici gialli scritti dall’autore, scozzese a sua volta – tutto ruota intorno ai segreti che si annidano dietro l’apparente rispettabilità di una comunità che si rispecchia, simbolicamente, nel suo ben frequentato liceo. Devine non fa sconti quasi a nessuno, portando alla luce, attraverso il dipanarsi delle indagini, una trama di inconfessabili peccati, doppie e triple vite, comportamenti tutt’altro che irreprensibili anche da parte di chi dovrebbe incarnare un modello per i giovani. Non stupisce, dunque, che proprio questi ultimi siano messi al centro della storia. Pur senza la profondità di un Simenon, l’autore sa offrire un quadro sufficientemente ambiguo della cittadina che fa da sfondo alla vicenda. Con uno stile asciutto (forse un po’ troppo) e con una apprezzabile capacità di evitare digressioni (anche se la prima parte soffre di una certa lentezza), Devine offre un’alternativa al poliziesco anglosassone tradizionale, facendo irrompere la realtà nel giallo; e, anche se Chandler o Hammett sono lontani, sia per l’impianto sia per la scrittura, il libro risulta godibile e scorre con estrema facilità.

GIUDIZIO: **½

PRE-TESTI, DIVAGAZIONI
E SPUNTI MINIMI

Difficile penetrare l’anima di un popolo. Difficilissimo poi supporre di poterne ricavare delle costanti tali da non degenerare nel luogo comune. Gli scozzesi, da questo punto di vista, passano da sempre per tirchi, ma tra gli stereotipi inscalfibili si annoverano anche il kilt, le cornamuse, il whisky e la birra; quando vogliamo dimostrare di saperne qualcosina di più ci rifugiamo in Maria Stuarda o William Wallace (che godettero, in anni ormai lontani, di fama cinematografica). Pigrizia, certo, ma, con il declino della storia (per non parlare della geografia!), anche il segno della fatica di conoscere.  

La falsificazione non è però solo un frutto della comune indolenza, né un prodotto recente dei nostri tempi creduloni. Lo dimostra il caso, un tempo notissimo agli studenti liceali, dei Canti di Ossian, versi epici di tradizione popolare che, nella seconda metà del Settecento, il poeta scozzese James Macpherson accreditò come opera di un leggendario bardo, Ossian appunto, che lui disse di aver scoperto e raccolto nelle Highlands, laddove ne era invece in gran parte l’autore. Opera di enorme successo, considerata nei manuali di letteratura come uno dei testi di sensibilità “pre-romantica” e citata in relazione all’influenza che ebbe su autori ben più noti come Goethe e Foscolo (Jacopo Ortis se ne professa lettore e traduttore, al pari del giovane Werther). Nella pressoché contemporanea traduzione italiana fattane da Melchiorre Cesarotti, i Canti di Ossian sono un concentrato di cultura popolare scozzese, la cui grandezza è sempre, in qualche modo – nei versi di Macpherson – associata a un che di sublime e di inquieto, di selvaggio e di sepolcrale al tempo stesso, come è evidente, ad esempio, da questi versi che celebrano la potenza travolgente della natura:

Sbuffa ’l vento, la pioggia precipitasi,
Atri spirti già strillano ed ululano,
Svelti i boschi dall’alto si rotolano,
Le fenestre pei colpi si stritolano.
Rugghia il fiume che torbido ingrossa:
Vuol varcarlo e non ha possa
L’affannato viator.
Udiste quello strido lamentevole?
Egli è travolto, ei muor.
La ventosa orrenda procella
Schianta i boschi, i sassi sfracella:
Già l’acqua straripa,
Si sfascia la ripa,
Tutto in un fascio la capra belante,
La vacca mugghiante,
La mansueta e la vorace fera
Porta la rapidissima bufera.

Se Macpherson tentò, almeno inizialmente, di occultare i suoi versi dietro quelli del leggendario bardo Ossian, la somma fama tra i poeti scozzesi spettò, sempre sulla fine del Settecento, a Robert Burns, tuttora esaltato come il massimo cantore dell’identità scozzese (in suo onore ogni anno si tengono le “Burns Suppers”, cene celebrative che, tra kilt, cornamuse, whisky e insaccati di pecora, sfidano tutti i luoghi comuni in nome dell’orgoglio di patria). A Burns si devono i seguenti versi, che testimoniano della sua indefessa attività di raccoglitore e cultore degli antichi canti tradizionali della sua terra:

Il mio cuore è in Scozia,
il mio cuore non è qui;
Il mio cuore è in Scozia
a cacciare il cervo,
a cacciare il cervo
e a inseguire il capriolo,
il mio cuore è in Scozia
dovunque io vada.
I
Addio Scozia,
addio, o settentrione,
il paese del Coraggio,
il paese del Valore;
dovunque vagabondi,
dovunque mi avventuri,
le colline della Scozia
sempre amerò.
II
Addio, o montagne
dalle cime coperta di neve;
addio, o declivi
e verdi valli più in basso;
addio, o foreste
e boschi scoscesi;
addio, o torrenti
e acque scroscianti.

Testi citati
James Macpherson – da “La notte”, in CANTI DI OSSIAN – traduzione di Melchiorre Cesarotti (1760)
Robert Burns – IL MIO CUORE È IN SCOZIA – traduzione di Cattia Salto (1790)

LEGENDA RECENSIONI
Sia per i libri che per i film, adotto nel giudizio sintetico il sistema Mereghetti, che va da 0 a 4 stelline: a 0, ovviamente, i giudizi più negativi, a 4 quelli più positivi, con tutti i possibili gradi intermedi…

?
0
1/2
*
*1/2
NON GIUDICABILE con i sistemi ìclassiciî di voto
PESSIMO
QUASI PESSIMO
BRUTTO
BRUTTINO
 
**
**1/2
***
***1/2
****
ACCETTABILE
DISCRETO
BUONO
MOLTO BUONO
CAPOLAVORO