LECTIO BREVIS / 164

Testi, pre-testi, divagazioni e spunti minimi intorno a libri letti, riletti, sfogliati

A cura di Roberto Mandile

PUNTATA 164
FAMIGLIE A PEZZI
Tra noia, tradimenti, maldicenze, delitti, ingerenze esterne: storie di nidi distrutti

Ivan Sergeevič Turgenev – UN RE LEAR DELLA STEPPA (1870)

Di cosa parla: A narrare i fatti a un gruppo di amici è un uomo che riferisce una vicenda risalente alla sua giovinezza. Si tratta della storia di un amico di famiglia, Martin Petrovič Harlov, piccolo proprietario terriero dal fisico imponente e dalla forza straordinaria. In seguito a un sogno dal quale presagisce la sua imminente morte, l’uomo, vedovo, decide di donare legalmente tutti i suoi beni alle sue due figlie. Nonostante tutti lo mettano in guardia dai rischi, Martin non cede, ma dovrà presto pentirsi della sua scelta, perché le figlie, insieme al genero, anziché prendersi cura di lui, lo ridurranno a vivere di stenti. Colto da un raptus accecante di follia, arriverà a distruggere la casa di famiglia prima di morire…

Commento: Per far incontrare Shakespeare e la steppa, ci vuole un grande scrittore. Turgenev dichiara il suo debito con il drammaturgo inglese fin dal titolo e dalla cornice di questo meraviglioso racconto lungo, ma rispetto alla tragedia shakespeariana, da cui peraltro si distanzia anche per la trama, ribassa e al tempo stesso adatta al genere del racconto la condizione del protagonista: non un re della mitologia britannica ma un possidente russo. L’autore (il più occidentale degli scrittori russi dell’Ottocento?) fa della vicenda di un padre odiato dalla propria stessa progenie una sorta di dramma borghese contemporaneo: lo dimostra, se anche non ci fosse altro, la centralità che nel racconto è rivestita dal fattore “materiale”, ossia il possesso delle terre, vere protagoniste della storia. Così come grande cura è posta nella narrazione della scena cruciale, quella del contratto di donazione che Martin decide di sottoscrivere (Turgenev approfondì proprio le questioni legislative implicate). La figura del protagonista, la cui discesa nell’abisso ha del patetico forse più che del grandioso, appare così al tempo stesso vittima della sua ingenuità (in molti avevano provato a dissuaderlo) e della sua sostanziale ignoranza (è semianalfabeta), ma anche prigioniero della sua smisurata – e sproporzionata – imponenza, evidente nel suo fisico massiccio e nella sua forza incontrollabile. La generosità di Martin si scontra, certo, con l’avidità e l’insensibilità delle figlie e del genero, ma è un conflitto che, sullo sfondo della sconfinata campagna russa, finisce a sua volta per perdersi, per diventare un racconto da riferire una sera d’inverno agli amici riuniti a parlare di letteratura. Anche in Russia Shakespeare è diventato un metro di paragone, un riferimento letterario, il pretesto per intrattenere narrando una storia della nostra gioventù.

GIUDIZIO: ***

Irène Némirovsky – LA PEDINA SULLA SCACCHIERA (1934)

Di cosa parla: Christophe Bohun è un impiegato parigino, che si sente soffocato dal lavoro e dalla famiglia. Superati ormai i quarant’anni, abita in una casa sulla Senna insieme alla moglie Geneviève, al figlio diciottenne Philippe, all’anziano padre James (la cui azienda, anni addietro, è fallita) e alla nipote di quest’ultimo Murielle de Pena, suo antico amore di gioventù divenuta, stancamente, da qualche anno, sua amante. Incapace di prendere decisioni, Christophe si lascia vivere, finché un evento imprevisto scuote la monotonia dei suoi giorni: dopo la morte del genitore, scopre infatti che costui ha corrotto e ricattato per anni uomini potenti per spingere il governo francese a foraggiare la corsa agli armamenti e salvarlo così dal fallimento. Saprà Christophe approfittare della circostanza per imprimere una svolta alla sua grigia esistenza?

Commento: «“L’amore?”, si chiedeva ancora una volta Christophe. “Sarebbe una buona cosa, se non fosse necessario tutto questo parlare, essere teneri, fingere… Tutto mi annoia a morte. Vorrei partire. Da solo, Dio santo, soprattutto da solo!”». È un inetto il protagonista del romanzo, un uomo che vive di autoinganni, incapace di decidere e trascinato dagli eventi che accadono intorno a lui e a cui sembra assistere da spettatore. A differenza dei personaggi di Kafka o di Svevo, però, Christophe Bohun – che, pure, è schiacciato dal confronto non risolto con l’anziano padre James – insegue il fantasma dell’amore con un’angoscia che non ha nulla di metafisico e non è neppure lontanamente sfiorata dall’ironia. Il risultato è che egli pare come soffocato dalle pulsioni vitali, ma l’indifferenza della quale è preda gli impedisce sia di intrecciare relazioni sane con le persone che lo circondano, dalla moglie al figlio all’amante, sia di riconoscere che il passare del tempo obbliga ad abbandonare ogni velleità, ogni passione per abbracciare un ideale (borghese) di normalizzazione. Quello che non convince del tutto del romanzo è lo stile, che sembra una summa dei difetti impliciti nella scrittura di Irène Némirovsky: c’è, ad esempio, qualcosa di troppo partecipe, di troppo cerebrale e al contempo di troppo appassionato, nella scelta di lasciare ampio spazio ai pensieri e ai moti dell’animo di Christophe. Avrebbe senz’altro giovato una maggior freddezza (quella di un Simenon, per esempio), anche perché il protagonista, con il passare delle pagine, finisce per diventare inutilmente lagnoso e se il finale, in qualche modo, appare coerente (forse troppo?) con le premesse, è altrettanto vero che trasuda di un romanticismo un po’ estenuato. Titolo piuttosto fuorviante.

GIUDIZIO: **

PRE-TESTI, DIVAGAZIONI
E SPUNTI MINIMI

Nelle questioni di famiglia è meglio non intromettersi. E se non basta il buon senso a certificarlo, la letteratura si è incaricata più e più volte di metterlo in chiaro, non solo nell’ambito del romanzo che, almeno da Madame Bovary (1856) in poi, diventa lo specchio della morale borghese e, in barba a ogni decoro morale, trova nella crisi di coppia uno dei più potenti motori della narrazione. Il teatro, naturalmente, si adegua (basti citare Casa di bambola di Ibsen, 1879), ma anche nella poesia il tema fa la sua comparsa.

Si legga, ad esempio, come nell’Antologia di Spoon River di Edgar Lee Masters, Mrs. Charles Bliss racconta, una volta morta, la sua vicenda di famiglia:   

Il Reverendo Wiley mi consigliò di non divorziare
per il bene dei figli,
e lo stesso consigliò a lui il Giudice Somers.
Così tirammo avanti sino alla fine del sentiero.
Ma due dei bambini pensavano che avesse ragione lui,
e due dei bambini pensavano che l’avessi io.
E i due dalla sua parte condannavano me,
e i due dalla mia parte condannavano lui,
e soffrivano per quello di cui prendevano le parti.
E tutti erano dilaniati dalla colpa del giudicare,
e torturati perché non potevano ammirare
egualmente lui e me.
Ora ogni giardiniere sa che le piante cresciute nelle cantine
o sotto le pietre, sono contorte gialle e indebolite.
E nessuna madre farebbe succhiare al suo bambino
latte malato dal suo seno.
Pure giudici e predicatori consigliano di allevare le creature
dove non c’è luce di sole, ma soltanto crepuscolo,
nessun calore, ma solo umido e freddo –
Giudici e predicatori!

C’è, infine, il caso, notissimo, di Giovanni Pascoli, che della distruzione della famiglia in seguito all’omicidio del padre (e delle disgrazie che ne derivarono) fece un punto qualificante della sua poetica: ne nacque una vera e propria ossessione, non esente da una certa morbosità, che sfociò nel tentativo di ricostruire il “nido” perduto insieme alla sorella Maria. E il nido è un’immagine che ricorre insistentemente nella poesia di Pascoli, caricandosi ogni volta di valenze allusive; così, ad esempio, rievocando, a distanza di molti anni, il momento in cui, un mese dopo la morte del padre, Giovanni e la sua famiglia dovettero trasferirsi, il poeta ricorda che un uomo del luogo, alla vista degli otto orfani accompagnati dalla madre, esclamò: «Un nido, ve’, di farlotti!» (i farlotti sono i piccoli delle averle, chiamate da Pascoli anche “verlette”). Un nido destinato, di lì a pochi anni, ad andare del tutto distrutto per la morte (simboleggiata, nella poesia, dallo sparviero) della madre e di tre tra fratelli e sorelle; non resta che Giovanni ormai:

E come, o madre, quella parola
ti si confisse tanto nel petto,
che assomigliava la famigliuola
tua nuda a quella d’un uccelletto?

O madre! o madre! non era vero?
non eran ali dunque le tue?
non anche prese te lo sparviero
lasciando il nido senza voi due?

prima con otto bocche, poi sette,
sei, cinque… aperte sempre al tuo volo,
aperte invano… sì, di verlette:
nido fra i duri triboli solo.

Tra quei che il falco non ghermì poi,
o l’uomo vile, madre mia santa,
tra quei farlotti piccoli tuoi,
uno non vola dunque? non canta?

non era vero vero? le prime
arie non canta, semplici e tristi?
non vola, in alto, poi dalle cime
scende là dove tu gli sparisti?

Testi citati
Edgar Lee Masters – MRS. CHARLES BLISS, in “Antologia di Spoon River” – traduzione di Letizia Ciotti Miller(1915)
Giovanni Pascoli – IL NIDO DI «FARLOTTI», in “Canti di Castelvecchio” (1903)

LEGENDA RECENSIONI
Sia per i libri che per i film, adotto nel giudizio sintetico il sistema Mereghetti, che va da 0 a 4 stelline: a 0, ovviamente, i giudizi più negativi, a 4 quelli più positivi, con tutti i possibili gradi intermedi…

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*1/2
NON GIUDICABILE con i sistemi ìclassiciî di voto
PESSIMO
QUASI PESSIMO
BRUTTO
BRUTTINO
 
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**1/2
***
***1/2
****
ACCETTABILE
DISCRETO
BUONO
MOLTO BUONO
CAPOLAVORO