# 331 – Jean-Philippe Postel – IL MISTERO ARNOLFINI (Skira, 2017, pagg. 123)
Non si sa molto della vita del geniale pittore fiammingo Jan Van Eyck, che ha legato il proprio nome ad alcune opere memorabili. La più misteriosa è decisamente quella che è stata tramandata sotto il titolo “I coniugi Arnolfini” e che ritrae una ieratica coppia di sposi che sembrano giurarsi eterna fedeltà. Ma perché lo sguardo di lui è così spento e inquietante? E perché lei sembra incinta? Chi sono le misteriose figure che si riflettono nello specchio convesso che campeggia al centro della composizione, specchio che, pur raccogliendo sulla sua superficie curva e levigata ogni dettaglio della stanza e dei personaggi, inspiegabilmente non riflette il cagnolino che si trova ai piedi dei due sposi? Che attinenza c’è tra il buffo nome popolare “Arnoul-le-fin” e il cognome Arnolfini? Siamo proprio sicuri che il quadro ritragga una coppia felice, e non celi invece un oscuro segreto ormai perduto nel Tempo?
Applicando all’analisi pittorica il proprio sguardo clinico, Jean-Philippe Postel – che di professione fa il medico – si diverte a indagare uno dei quadri più enigmatici della storia della pittura, “I coniugi Arnolfini”, un olio su tavola di circa 81×59 cm dipinto da Jan Van Eyck nel 1434 e conservato oggi alla National Gallery di Londra.
Quadro realmente inquietante, quest’opera del grande pittore fiammingo ha attraversato i secoli senza che, a quanto pare, si conservasse un chiaro e nitido ricordo delle sue origini, delle motivazioni che spinsero l’artista a dipingerla, come anche dei soggetti dipinti. Chi sono i due personaggi in primo piano, che sembrano tenersi per mano (ma in realtà l’uomo sorregge delicatamente la mano della donna, come se stesse giurando qualcosa o si preparasse a prestare un giuramento)? La tradizione sostiene che lui è il ricco mercante di origine italiana Giovanni Arnolfini, mentre la figura femminile sarebbe sua moglie. Ma quale, visto che Arnolfini di mogli ne ebbe due? La prima o la seconda? E perché la donna appare incinta (ma potrebbe benissimo non esserlo, visto che anche in altre opere Van Eyck ha dipinto donne che si tengono la veste e sembrano in dolce attesa pur non essendolo)?
Le domande si moltiplicano, di capitolo in capitolo, e il breve saggio-disamina di questo medico francese classe 1951 offre, giocoforza, risposte solo parziali, appena accennate, suggerimenti interpretativi più che reali scoperte, anche perché c’è poco da scoprire, in assenza di ulteriori fonti, letterarie o pittoriche, che chiariscano i tanti aspetti misteriosi di questo quadro dall’atmosfera stranissima, sospesa e drammatica, come se il pittore avesse voluto alludere a una tragedia incombente, o a qualcosa di terribile già accaduto, ma “fuori campo”, altrove, e rappresentato nel quadro in una sorta di codice cifrato.
Anche la firma dell’artista, “Johannes de Eyck fuit hic”, suona in qualche misura strana: perché non “fecit”, come di solito si firmavano i quadri? Perché “fuit hic”, ovvero “fu qui?” Che senso attribuire a quella che sembra, a tutti gli effetti, una complessa e stratificata messa in scena, genialmente e subdolamente raddoppiata dall’immagine riflessa nello specchio centrale, sorta di occhio di una cinepresa ante litteram che coglie solo ciò che vuole, come se i “mondi” raffigurati nel quadro fossero due, e non uno solo.
Nel quadro si vedono, infatti, due figure sulla porta della stanza, figure che per forza di cose non possono comparire nell’immagine principale, trovandosi al di là della “quarta parete” dalla quale il pittore ha dipinto la tavola; ma, soprattutto, nello specchio non si vede il carinissimo griffoncino di Bruxelles straordinariamente dipinto da Van Eyck, unico personaggio – fa notare Postel – che guarda il pubblico, che ci guarda, da questo quadro misterioso e sfuggente, che durante i secoli della sua esistenza non mancò di turbare alcuni dei suoi proprietari: pare infatti che Margherita d’Austria l’avesse fatto chiudere a chiave dietro due ante costruite appositamente.
Cosa non voleva che si vedesse? Quale scandaloso o pericoloso messaggio veicola questa piccola tavola di legno superbamente dipinta? Perché nello specchio i due personaggi non sembrano affatto tenersi per mano, come se a tutti gli effetti quella nello specchio e quella fuori da esso fossero due scene diverse, due momenti distinti?
Postel, da sincero appassionato di pittura, è bravo a porsi le domande giuste e a condurre il lettore nei meandri di un quadro estremamente complesso (alcuni dettagli non sono più grandi di un centimetro, sulla tavola), con capitoli brevi e ben tagliati; purtroppo, però, a fare difetto sono a tratti lo stile e l’impostazione stessa del libro, fin troppo colloquiali e naïf per convincere davvero, e per rappresentare un solido passo avanti nell’indagine su un’opera indubbiamente misteriosa e affascinante.
Alla fine, i meriti superano i demeriti, la lettura è piacevole e si esce dal libro con un arricchimento della coscienza, ma anche con la sensazione che un vero storico dell’arte ci avrebbe regalato un’opera più completa e significativa, a partire dalla terminologia, che non sempre è adeguata, per finire col tono generale, che pur di accattivarsi il lettore prende fin troppo le sue parti e pone l’Autore sullo stesso piano del comune appassionato che vada alla National Gallery a guardare il dipinto. E così, se da una parte si empatizza con il ricercatore, dall’altra si finisce per non dargli completa fiducia, perché egli, in fondo, appare a sua volta un comune spettatore, certo più informato sulle minuzie del quadro, ma non per questo depositario del suo segreto.
(Recensione scritta ascoltando i Röyksopp, “Monument”)
PREGI:
abbastanza semplice da leggere anche per chi non ha familiarità con la pittura fiamminga, il libro si fa apprezzare per l’immediatezza delle domande che pone e la garbata colloquialità delle risposte che suggerisce, pur senza pervenire – fatalmente – a una verità definitiva
DIFETTI:
a tratti fin troppo ostentatamente naïf, è il libriccino di un appassionato e non il saggio di un grande studioso, banalizzato peraltro dalla scelta di Skira di pubblicare senza immagini a colori e senza inserti in carta lucida. Come pretendere di far cogliere al lettore i dettagli minimali di un quadro così raffinato e complesso con un apparato d’immagini in bianco e nero e sgranate? Decisamente futile la prefazione di Daniel Pennac
CITAZIONE:
“Il doppio senso è la molla del dipinto, che gli conferisce la sua meravigliosa e paradossale unità.” (pag. 94)
GIUDIZIO SINTETICO: **½
LEGENDA RECENSIONI
Sia per i libri che per i film, adotto nel giudizio sintetico il sistema Mereghetti, che va da 0 a 4 stelline: a 0, ovviamente, i giudizi più negativi, a 4 quelli più positivi, con tutti i possibili gradi intermedi…