LECTIO BREVIS / 128

Testi, pre-testi, divagazioni e spunti minimi intorno a libri letti, riletti, sfogliati

A cura di Roberto Mandile

PUNTATA 128
PER DIVERTIMENTO
Scherzi letterari, variazioni sulla storia: la letteratura come intrattenimento, svago, disimpegno

Graham Greene – IL TERZO UOMO (1950)

Di cosa parla: Vienna, 1948. La città è divisa in quattro zone, controllate dagli Alleati. Lo scrittore di romanzetti western Rollo Martins è stato invitato nella capitale austriaca dall’amico Harry Lime per scrivere un servizio giornalistico. Ma, al suo arrivo, scopre che Lime è morto. Al funerale, incontra Calloway, funzionario di Scotland Yard, che insinua in lui alcuni sospetti sulla fine dell’amico. Lo scrittore si decide a svolgere delle indagini, dalle quali risulterà che, all’incidente fatale, hanno assistito due amici di Lime, ma anche un misterioso terzo uomo, la cui ricerca diventerà prioritaria per Martins…

Commento:
Come ebbe a ricostruire Graham Greene, il libro, nato da un’ispirazione avuta una sera di settembre del 1947 e scritto poi durante un soggiorno in Italia, nacque parallelamente alla sceneggiatura cui lo stesso scrittore lavorò per il film diretto da Carol Reed uscito nel 1949 e diventato da subito uno dei punti fermi nella storia del noir, anche grazie al cast di altissimo livello (Joseph Cotten, Alida Valli, Orson Welles, Trevor Howard). Secondo Greene, “Il terzo uomo è stato scritto per essere visto, non per essere letto”. E certamente, al di là della professione di modestia dello scrittore, l’asciuttezza del libro, per quanto giustificata come più funzionale alla resa cinematografica, non è superficialità: lo stile inconfondibile dell’autore si ritrova nella precisione con cui sono rese le atmosfere e l’ambientazione, nell’estrema efficacia dei dialoghi, nell’icastica caratterizzazione dei personaggi, nel ritmo incalzante della trama. Tanto più che l’intento (del film ma anche del libro) era – sono sempre parole di Greene – “intrattenere il pubblico, spaventarlo un poco, e farlo anche un po’ ridere”, il che è la quintessenza dei romanzetti, come quelli che scrive Rollo: la differenza – e il cinema ha forse insegnato molto alla letteratura, sotto questo profilo – la fa sempre la scrittura, che è mestiere e non ispirazione. Anche perché di fronte a produttori che sapevano il fatto loro come Alexander Korda e David O. Selznick le velleità artistiche non bastavano. 

GIUDIZIO: ***

Hans Tuzzi – IL TRIO DELL’ARCIDUCA (2014)

Di cosa parla: 1914. Il ritrovamento del cadavere di Celik Yilmaz, mercante turco, nelle acque del porto di Trieste suona subito sospetto a Neron Vukcic, giovane agente segreto dell’Impero austro-ungarico: il morto, infatti, era un suo informatore. Nel ricostruire le ultime ore di vita di Yilmaz, Vukcic dovrà raggiungere Sarajevo, l’ultima città da cui la vittima era passata prima di arrivare a Trieste, per spingersi poi fino a Istanbul, la capitale dell’Impero ottomano che porta ancora ufficialmente il nome di Costantinopoli. L’indagine, tra spie e controspie, affiliati di associazioni segrete e danzatrici di fama, attraversa i Balcani, sull’orlo di una guerra che tutti danno per inevitabile e imminente e che, come intuisce il genio investigativo di Neron Vukcic, potrebbe essere connessa proprio all’assassinio di Yilmaz…

Commento: Primo romanzo di una trilogia di gialli storici con protagonista lo stesso investigatore, è un divertimento colto, raffinato che, con senso del ritmo e tocchi forse qua e là un po’ troppo ricercati e autocompiaciuti (ma l’atmosfera è fondamentale in una spy story), ricostruisce con buona fedeltà (anche se con una clamorosa svista sulla nascita dell’Impero austro-ungarico!) il quadro nel quale maturarono le condizioni che portarono all’attentato di Sarajevo. L’identità plurale (e tollerante delle diversità!) dell’Impero austro-ungarico è resa attraverso la polifonia etnica dei personaggi, ma anche per mezzo dei numerosi riferimenti gastronomici che costellano la narrazione. Il personaggio di Neron Vukcic altri non è che Nero Wolfe da giovane (almeno a giudicare da questo romanzo: in quelli successivi le cose verranno rimesse in discussione), mentre lo pseudonimo dell’autore è di esplicita ispirazione musiliana. Certo, ci si potrebbe chiedere se l’intrico di rimandi, allusioni storiche e metaletterarie, siano alla portata di tutti e se il divertimento del romanzo non risieda, in fondo, quasi interamente in questo gioco continuo di strizzate d’occhio al lettore. Il che non è forse un difetto in sé, considerate anche le agevoli dimensioni del libro, ma può rappresentarne il limite, anche nell’ambito del genere, come è chiaro, ad esempio, appena si ponga mente alla (inevitabile?) prevedibilità della conclusione. A meno che, naturalmente, si ignori cosa sia accaduto in Europa il 28 giugno 1914; ma, in questo caso, ci permettiamo di sconsigliare la lettura del romanzo, sia perché risulterebbe del tutto incomprensibile sia perché gioverebbe prioritariamente aprire un manuale di storia, fosse anche di terza media.

GIUDIZIO: **½

PRE-TESTI, DIVAGAZIONI
E SPUNTI MINIMI

Tri tri tri,
fru fru fru,
ihu ihu ihu,
uhi uhi uhi.

Il poeta si diverte,
pazzamente, smisuratamente -!
Non lo state a insolentire,
lasciatelo divertire
poveretto,
queste piccole corbellerie
sono il suo diletto.

Cucù rurù,
rurù cucù,
cuccuccurucù!

Scrivere per divertirsi o divertirsi a scrivere? A sentire Aldo Palazzeschi, che così inizia una delle sue più celebri poesie, dal titolo quanto mai programmatico E lasciatemi divertire!, il dilemma non si pone. In barba a tanti fautori dell’impegno, già più di un secolo fa, lo scrittore fiorentino – nel clima delle avanguardie europee – superava il dannunzianesimo ancora imperante (ma anche il suo opposto, ossia il mito socialista – e carducciano – della poesia come motore della storia) per affermare non solo la libertà assoluta dell’artista ma l’ininfluenza della letteratura sulla realtà. Altro che poesia civica, altro che vati, altro che versi nuovi per un mondo nuovo! La poesia di Palazzeschi è fatta di “indecenze”, “strofe bisbetiche”, “robe avanzate”, “la spazzatura delle altre poesie”. E di una rivendicazione chiara e forte, quanto disincantata e persino un po’ amara nella conclusione:

Lasciate pure che si sbizzarrisca,
anzi è bene che non la finisca.
Il divertimento gli costerà caro:
gli daranno del somaro.

Labala
Falala
falala
appoi lala.
Lalala, lalala.

Certo è un azzardo un po’ forte,
scrivere delle cose così,
che ci son professori oggidì,
a tutte le porte.
Ahahahahahahah!
Ahahahahahahah!
Ahahahahahahah!

Infine,
io ho pienamente ragione,
i tempi sono molto cambiati,
gli uomini non dimandano
più nulla dai poeti,
e lasciatemi divertire!

A dispetto di Palazzeschi che invocava disimpegno e divertimento, il secolo breve si incaricherà di disilludere chi credeva di poter vedere nella pretesa leggerezza delle lettere il riflesso di un mondo altrettanto lontano da ogni gravità. Ciononostante, anche gli scrittori più seri (o che passano per tali) non hanno disdegnato di avventurarsi su terreni più ludici. Persino nella vasta opera di Thomas Mann si legge un racconto, Le teste scambiate, che si può senz’altro definire “divertito”. S’intitola Le teste scambiate: siamo in India e si racconta la storia di Shridaman e Nanda, due giovani amici di diversa estrazione sociale e di opposta natura (mercante dalle grandi doti spirituali il primo, fabbro forte e bello il secondo). Shridaman sposa la bella Sita. A sei mesi dal matrimonio, i due coniugi, accompagnati dall’amico Nanda, si mettono in viaggio per andare a far visita ai genitori della donna, rimasta incinta. Durante una tappa presso un tempio della dea Kali, Shridaman, in preda a furore mistico, si uccide decapitandosi; Nanda, scoperto l’accaduto, imita l’amico; Sita, grazie all’intervento della dea, riesce a far rivivere i due uomini, ma la conclusione della vicenda sarà piuttosto inattesa. Riprendendo un’antica storia indiana e capovolgendolo in uno “scherzo metafisico” (così lo definì lo stesso autore), Mann rilegge in chiave esotica il tema, a lui caro, della dicotomia tra corpo e spirito, tra istinto e razionalità, tra natura e civiltà. La storia può apparire anomala nella produzione del grande scrittore tedesco, ma, come rivela proprio il finale, quel che conta è soprattutto l’ironico, elegante distacco con cui viene narrata.  

Testi citati
Aldo Palazzeschi – E LASCIATEMI DIVERTIRE!, in “L’incendiario” (1910)
Thomas Mann – LE TESTE SCAMBIATE (1940)