INVISIBLE MONSTERS – Chuck Palahniuk

# 173 – Chuck Palahniuk – INVISIBLE MONSTERS (Mondadori, 2000, pagg. 227)

La top model Shannon McFarland si gode una vita piena di agi e ammirazione, fino a quando resta sfigurata da un colpo di fucile in pieno volto, in seguito al quale perde persino la capacità di parlare. Abbandonata da tutti – a partire dal fidanzato Manus e dalla migliore amica Evie – Shannon è costretta a reinventarsi come persona, e la sua guida in questo difficile processo sarà Brandy Alexander, misterioso transessuale che sta per compiere l’ultimo passo per diventare donna a tutti gli effetti. Assieme a Brandy, Shannon compirà un viaggio di vendetta e riscoperta, durante il quale non mancheranno le sorprese…

Opera terza di Chuck Palahniuk dopo “Fight Club”, il folgorante esordio del 1996, e dopo il deludente “Survivor”, questo “Invisible Monsters” (titolo lasciato in inglese da Mondadori, con scelta incomprensibile) non risolleva le sorti del discusso scrittore americano, a tutt’oggi legate al suo libro d’esordio, a mio avviso l’unico veramente valido e difendibile dalla prima all’ultima pagina che egli abbia proposto al pubblico.

Non che Palahniuk abbia bisogno d’essere difeso: quello che gli interessa è disturbare e sconvolgere il lettore, nella consapevolezza (per certi aspetti giustificata) che la letteratura debba tornare ad avere un ruolo attivo e, meglio ancora, aggressivo nei confronti del pubblico. Se c’è una cosa che si può dire dei libri di Palahniuk, infatti, è che essi non lasciano mai del tutto indifferenti, preferendo correre il rischio – a mio avviso molto elevato – di risultare sgradevoli e disturbanti, piuttosto che rischiare l’anonimato e l’indifferenza. In altre parole, Palahniuk sa benissimo di essere uno scrittore acre e caustico, si sforza anzi di esserlo sempre di più, ogni romanzo è un tentativo di rilanciare con nuove sgradevolezze e nuovi azzardi linguistici e tematici, all’inseguimento del mito di una letteratura-dinamite che faccia saltare il lettore sulla sedia e gli cambi la vita per sempre, aprendogli gli occhi sulla realtà che lo circonda, sui veri nessi tra le cose e le persone, sul vero volto di un’America iniqua e crudele.

Tutto bene, fin qui, direte. Che male c’è in una letteratura capace di sconvolgere? Non è forse quello che io stesso vado predicando da anni, cioè che i libri dovrebbero sempre cambiare un po’ la vita e il pensiero di chi li legge? Sì, ma c’è un piccolo problema: a Palahniuk l’operazione-sconvolgimento riesce solo con “Fight Club”! Il resto della sua carriera, per quello che ho potuto leggerne, non è che il disperato tentativo di replicare quella formula magica in altre salse e in altri modi, con scarso successo, perché se c’è una cosa che disinnesca ab origine qualunque provocazione è proprio la scoperta volontà di essere provocatori, la sbandierata intenzione di turbare con malizia e metodo. E Palahniuk, dopo “Fight Club”, è proprio questo: uno scrittore che deve turbare i suoi lettori (se no non sarebbe Palahniuk!), uno scrittore che nonpuò essere gradevole e disteso (se no non sarebbe Palahniuk!), uno scrittore che spinge tutto alle estreme conseguenze, salvo accorgersi poi che di estremo non c’è nulla, perché tutto è già programmato in partenza, perché sappiamo benissimo cosa stiamo comprando, perché – infine, diciamolo! – Palahniuk diventa subito un brand, diventa la maniera di sé stesso.

Lungi dall’essere un libro originale e sconvolgente, “Invisible Monsters” è al contrario un romanzo accattivante (cioè abile a vendersi) e innocuo, attraente e deludente (un po’ come la sua protagonista), stimolante e deprimente. Lo stile, tutto basato su figure di ripetizione e su un Io narrante che ammicca a più non posso al lettore, ci mette ben poco a diventare pesante e fastidioso, e i personaggi, a furia di voler essere brillanti e originali, “mai scritti prima”, finiscono per diventare delle macchiette senza spessore, pure funzioni narrative che servono soltanto a veicolare il pessimismo dell’Autore sul mondo e sulla società.       

(Recensione scritta ascoltando gli Other Lives, “Black Tables”)

PREGI:
non il peggior romanzo di Palahniuk (titolo che, a mio avviso, si contendono “Survivor” e “Gang Bang”) ma di certo lontano anni luce dall’efficacia e dall’originalità di “Fight Club”. Intelligente nelle premesse (minare alle fondamenta il mito della bellezza e dell’esteriorità), il romanzo delude sul piano stilistico e sulla resa dei personaggi, perlopiù monodimensionali

DIFETTI:
epidermico e autocompiaciuto, è un romanzo che attrae almeno nella stessa misura in cui respinge il lettore che, come quasi sempre con Palahniuk, una volta che capisce qual è il gioco (rilanciare sempre sul disturbante e sul politicamente scorretto), non si diverte più e anzi, al contrario, finisce nelle spire del tedio

CITAZIONE:
“Ormai, quando sul giornale vedo la foto di una ventenne che è stata rapita e sodomizzata e derubata e poi uccisa e accanto c’è una foto a tutta pagina di lei giovane e sorridente, invece di pensare che questo sia un crimine grande e triste, la mia reazione istintiva è, wow, sarebbe una gran fica se non avesse quel nasone. La mia seconda reazione è che è meglio che io abbia pronto qualche bel primo piano di me nel caso venga rapita e sodomizzata a morte. La mia terza reazione è, be’, almeno così si riduce la competizione.” (pag. 11)

GIUDIZIO SINTETICO:

LEGENDA RECENSIONI
Sia per i libri che per i film, adotto nel giudizio sintetico il sistema Mereghetti, che va da 0 a 4 stelline: a 0, ovviamente, i giudizi più negativi, a 4 quelli più positivi, con tutti i possibili gradi intermedi…

?
0
1/2
*
*1/2
NON GIUDICABILE con i sistemi ìclassiciî di voto
PESSIMO
QUASI PESSIMO
BRUTTO
BRUTTINO
 
**
**1/2
***
***1/2
****
ACCETTABILE
DISCRETO
BUONO
MOLTO BUONO
CAPOLAVORO