Testi, pre-testi, divagazioni e spunti minimi intorno a libri letti, riletti, sfogliati
A cura di Roberto Mandile
PUNTATA 185
L’AMERICA DEI FANTASMI
Distopie, ucronie, complotti e poteri forti made in USA
Don DeLillo – RUMORE BIANCO (1985)
Di cosa parla: Jack Gladney è professore di studi hitleriani presso il college di una cittadina del Midwest degli Stati Uniti. Come Babette, la sua attuale moglie, si è sposato più volte ed entrambi hanno figli dai precedenti matrimoni. Un giorno, Jack e la sua famiglia, come gli abitanti della loro città, sono costretti a un’evacuazione d’emergenza in seguito alla comparsa di una nube tossica derivante da una fuoriuscita di materiali chimici avvenuta nelle vicinanze. A causa dell’esposizione alla nube, Jack incomincia a nutrire seri timori di morire, finché scopre che Babette…
Commento: «Il nostro timore era accompagnato da un senso di reverenza che confinava con il religioso. […] Era una morte costruita in laboratorio, definita e misurabile, ma in quel momento ci pensavamo in modo semplice e primitivo […] La nostra impotenza non appariva compatibile con l’idea di un evento provocato da un uomo». Sono le parole con cui Jack Gladney, protagonista e narratore, prova a spiegare la reazione di fronte alla nube tossica intorno a cui si sviluppa (anche se solo in parte) il romanzo. È in queste parole che si concentra il nucleo tematico del libro. Un po’ scarno sul piano strettamente narrativo (ma riscattato, almeno parzialmente, verso il finale) e a tratti involuto per alcune scelte stilistiche (compresa l’alternanza tra capitoli indicati con numeri romani e altri con numeri arabi), il romanzo, in toni ora grotteschi ora allucinati, presenta un ritratto impietoso della società americana, impigrita, anestetizzata e quasi indifferente rispetto alle pulsioni di morte che pure la percorrono.
E se la nube tossica è la materializzazione, l’elemento che fa deflagrare la crisi, DeLillo punta il dito sul consumismo indotto dalla persuasione occulta e insistente della tv (che fa da sottofondo continuo allo scorrere della storia, il “rumore bianco” che tutto copre, appunto), sull’illusione di un sogno di felicità a portata di mano, in grado, attraverso la rimozione della violenza latente e la panacea offerta dalla tecnologia (in forma farmacologica e non solo), di restituire all’uomo un senso di invulnerabilità se non addirittura di immortalità. Lo straniamento e il gusto del paradosso che percorrono tutto il romanzo (basti pensare al dipartimento di studi hitleriani di cui Jack è titolare!), nonché qualche intellettualismo di troppo, specie in certi dialoghi, possono lasciare l’impressione che, qua e là, DeLillo si abbandoni a un sottile autocompiacimento. Resta aperto il dibattito: prevale la fantasia immaginativa di cui lo scrittore pur dà prova inventando mondi alternativi e presentandoci personaggi tutt’altro che eroici o edificanti, chiusi ciascuno nella corazza mediocre ma rassicurante del loro individualismo, o un’idea di letteratura che intende innanzitutto diffondere idee e “indurre alla riflessione” (siamo ancora e sempre lì, al messaggio, alla morale delle favole)?
GIUDIZIO: **½

Cormac McCarthy – IL PASSEGGERO (2022)
Di cosa parla: 1980. Robert Western, per tutti Bobby, fa il sommozzatore: durante un’immersione nella baia del Mississippi vede un jet inabissato a bordo del quale si trovano nove persone, tutte morte. Di quale aereo si tratta? E come mai nessuno ne ha parlato? E dov’è finito il decimo passeggero che compariva nella lista? Una sola cosa appare chiara fin da subito: che per Bobby quell’esperienza è l’origine di nuovi guai. Che prendono inizialmente le forme di due emissari governativi e delle domande che gli rivolgono. Non resta che fuggire e far perdere le tracce di sé. Ma come scampare ai sensi di colpa che da anni lo affliggono al pensiero dell’amatissima sorella Alicia, che fin da piccola conviveva con bizzarre allucinazioni e che sopravvive ormai quasi solo nei tormentati ricordi di Bobby?
Commento: Pubblicato dopo un lungo silenzio come primo capitolo di una diade di romanzi, gli ultimi dell’autore americano scomparso nel 2023 (il secondo libro, Stella Maris, molto più breve, è in realtà un prequel), è un testo tanto complesso quanto sfuggente e, al fondo di tutto, persino più deludente del previsto. Costruito sull’alternanza tra la vicenda principale (quella di Bobby) e gli assurdi dialoghi, risalenti a molti anni prima, tra la sorella Alicia e le sue “coorti” (il gruppo di personaggi, frutto di allucinazioni, capeggiati dallo sboccato Kid), il romanzo intreccia non solo piani narrativi diversi, ma si dipana, più che sul livello dei fatti oggettivi, “esterni”, sulla dimensione interiore dei personaggi, a partire dal protagonista. La fuga, motivata (anche se non spiegata!) dalla persecuzione di cui Bobby è vittima ad opera di imprecisati “poteri forti”, si rivela via via, e soprattutto nell’ultima parte, come una fuga da sé stesso, dai propri fantasmi, in primis quello della sorella (ma il discorso si può allargare anche al resto della famiglia, in particolare al padre, fisico nucleare che partecipò al Progetto Manhattan per la realizzazione della bomba atomica, quello di Oppenheimer, per intenderci).
Legato com’era ad Alicia da un rapporto a dir poco ambiguo, Bobby da un lato soffre dei rimorsi per il destino della sorella, mente geniale (in matematica e non solo) ma affetta da schizofrenia, dall’altro si scopre incapace di far fronte al crollo delle sue, già precarie, certezze quando si ritrova stritolato in un ingranaggio più grande e crudele di lui. A lasciare perplessi, però, sono una certa tendenza alla divagazione che si coglie nei dialoghi, quasi tutti iperspecialistici, tra Bobby e gli altri personaggi e soprattutto una qualche vaghezza nella trama principale, come se McCarthy, che nei suoi romanzi precedenti aveva abituato i lettori a una crudezza incisiva, volesse dar prova anche di un bello stile, capace di concessioni liriche e di qualche fumosità di troppo spacciata come un invito costruttivo a chi legge a riempire gli spazi mancanti. Non tutta la materia, insomma, è ben a fuoco: il che, se valutato dal punto di vista della volontà di depistare, è senz’altro affascinante, ma è anche indisponente nei confronti della pazienza del lettore trascinato sulle tracce di Bobby Western per quasi quattrocento pagine e poi abbandonato un po’ a sé stesso.
GIUDIZIO: **

PRE-TESTI, DIVAGAZIONI
E SPUNTI MINIMI
“America ti ho dato tutto e ora non sono nulla.
America due dollari e ventisette centesimi 17 gennaio 1956.
Non posso sopportare la mia mente.
America quando finiremo la guerra umana?
Va’ a farti fottere dalla tua bomba atomica.
Non sto bene non mi seccare.
Non scriverò la poesia finché non avrò la mente a posto.
America quando sarai angelica?
Quando ti toglierai i vestiti?
Quando ti guarderai attraverso la tomba?
Quando sarai degna del tuo milione di Trotzkisti?
America perché le tue biblioteche sono piene di lacrime?
America quando manderai le tue uova in India?
Sono stufo delle tue folli pretese.
Quando potrò andare al supermarket a comprare ciò che mi occorre con la mia bella faccia?
§America dopotutto siamo tu e io ad essere perfetti non il mondo vicino.
Il tuo macchinario è troppo per me.
Mi hai fatto voler diventare un santo.”
È l’incipit, al solito folgorante, di America di Allen Ginsberg (bisognerebbe riconoscere, almeno, quanto era bravo Ginsberg negli incipit). Siamo – come lascia intendere la poesia stessa – nel 1956 e il dopoguerra ha consegnato al mondo un’America trionfante, la cui leadership si sta consolidando, in buona parte del mondo, attraverso l’imposizione di un modello economico e culturale destinato a diventare dominante per i decenni a venire, alimentando sogni e invidie al tempo stesso e lasciando da ultimo uno strascico di amore e odio che, ben lungi dall’essersi esaurito, è semmai ancora l’essenza di ogni discorso sugli USA. La lunga poesia di Ginsberg, appello e atto d’accusa al contempo, è una sorta di catalogo di alcuni degli errori (e degli orrori) che hanno contrappuntato la storia americana del primo Novecento, dal più recente maccartismo ai casi giudiziari più o meno celebri che videro condanne arbitrarie di sindacalisti, anarchici (gli italiani Sacco e Vanzetti, citati, furono giustiziati nel 1927) o di neri. Sono rivendicazioni avanzate in nome dell’anticonformismo, nell’ambito delle idee (“America ero comunista da ragazzo non mi dispiace”; “Dovevi vedermi quando leggevo Marx”) ma anche e soprattutto dei comportamenti (“Fumo marijuana ogni volta che posso”; “Quando vado a Chinatown mi ubriaco e non mi faccio mai scopare”); sono un inno libertario nel contesto di una società fortemente repressiva e moralista (“Non dirò le preghiere del Signore”), tutta devota al mito del lavoro (“Continuerò come Henry Ford le mie strofe sono individui come le sue automobili e in più sono tutte di sessi diversi”).
L’antiamericanismo più sfrenato dovrebbe avere un limite almeno nell’ovvia considerazione che, da Ginsberg in avanti, è stata la letteratura (e spesso anche il cinema) ad avere più volte raccontato storie alternative in grado di mettere a fuoco, assai meglio di slogan triti e battaglie ideologiche, le contraddizioni interne a un Paese da sempre molteplice e sfuggente. Se già molta della fantascienza classica, lungi dall’essere mero strumento propagandistico, svelava dall’interno le ambiguità della guerra fredda, non sono mancati grandi scrittori che hanno dato vita a distopie illuminanti sull’America del Novecento, attraverso quel genere letterario particolare noto come ucronia (o storia alternativa).
Al caso più noto de La svastica sul sole di Philip K. Dick (1962), che immagina un’America che, uscita sconfitta dalla Seconda guerra mondiale, si ritrova sotto il dominio della Germania nazista e del Giappone suo alleato, si può aggiungere l’esempio, altrettanto celebre e altrettanto notevole, de Il complotto contro l’America di Philip Roth (2004). Il punto di unione tra i due libri può essere ravvisato nella figura di Franklin Delano Roosevelt: se nel romanzo di Dick, anziché diventare presidente degli USA, viene assassinato nel 1933, nel libro di Roth, invece, perde le elezioni del 1940 a vantaggio del suo concorrente, l’aviatore antisemita Charles Lindbergh: gli Stati Uniti, anziché entrare in guerra, resteranno neutrali e firmeranno anzi patti con la Germania e il Giappone. Le conseguenze sulle comunità ebraiche americane sono facilmente immaginabili, come chiarisce fin dall’inizio del romanzo, il narratore, un ragazzo ebreo:
“Lindbergh fu il primo celebre americano vivente che imparai a odiare – proprio come il presidente Roosevelt fu il primo celebre americano vivente che mi insegnarono ad amare – e così la sua nomination da parte dei repubblicani come avversario di Roosevelt nel 1940 rappresentò l’attacco più violento che fosse mai stato sferrato contro quella ricca dotazione di sicurezza personale che io avevo dato per scontata come figlio americano di genitori americani in una scuola americana di una città americana in un’America in pace col mondo.”

Testi citati
Allen Ginsberg – AMERICA, in “Urlo e altre poesie” – traduzione di Fernanda Pivano (1956)
Philip Roth – IL COMPLOTTO CONTRO L’AMERICA – traduzione di Vincenzo Mantovani (2004)
LEGENDA RECENSIONI
Sia per i libri che per i film, adotto nel giudizio sintetico il sistema Mereghetti, che va da 0 a 4 stelline: a 0, ovviamente, i giudizi più negativi, a 4 quelli più positivi, con tutti i possibili gradi intermedi…