LA SCUOLA CATTOLICA – Edoardo Albinati

# 209 – Edoardo Albinati – LA SCUOLA CATTOLICA (Rizzoli, 2021, ediz. orig. 2016, pagg. 1.292)

Nel settembre 1975, due ragazze romane – Donatella Colasanti e Maria Rosaria Lopez – vennero sequestrate, violentate e seviziate da tre ragazzi della “Roma bene”, quelli che un certo giornalismo definirebbe “tre insospettabili” (ma che in realtà, a ben vedere, erano sospettabili eccome!), nella villa di uno dei tre a San Felice Circeo. Une delle due, la Lopez, morì per le torture, mentre la Colasanti se la cavò, riportando però – comprensibilmente – traumi incancellabili. Un fatto di sangue senza precedenti in Italia, per ferocia e gratuità. Presto individuati, dei tre responsabili uno solo finì dietro le sbarre, gli altri due si diedero alla macchia. Uno fu catturato diversi anni dopo i fatti, mentre il terzo, arruolatosi a quanto pare nella Legione Straniera spagnola, sarebbe morto negli anni Novanta da latitante. Tutti e tre i colpevoli – erroneamente definiti “pariolini” dalla stampa dell’epoca – avevano frequentato il San Leone Magno, rinomata scuola cattolica nel Quartiere Trieste, a Roma, e, pur non essendo stati compagni di classe dell’Autore, ne hanno condiviso il percorso formativo, visto che anche Albinati è un “prodotto” del San Leone Magno (vi ha frequentato, come racconta lui stesso, tutte le scuole dalle elementari al Liceo, evitando soltanto di sostenervi l’esame di maturità). In una lunghissima rievocazione di quegli anni Settanta che l’hanno visto adolescente, tra la musica dei Genesis e le tensioni politiche, Albinati, mettendosi in scena in prima persona in un dichiarato mix di autobiografia e invenzione narrativa, fa rivivere un intero quartiere della Capitale, e un periodo storico fitto di contraddizioni, nel quale si aveva l’impressione che potesse succedere di tutto. E il Massacro del Circeo, di questa allo stesso tempo inquietante ed eccitante possibilità, è una atroce, terrificante rappresentazione: come è potuto accadere che dei ragazzi di ottima famiglia, educati dai preti del San Leone Magno, compissero un gesto così gratuito e belluino? Come può allignare la psicopatia sotto la superficie smaltata e uniforme della buona borghesia romana? Come può la scuola cattolica – come il celeberrimo sonno della ragione – aver generato dei mostri?    

Vincitore del premio Strega nel 2016, “La scuola cattolica” è uno di quei libri che non si sa come definire. Non è un romanzo in senso stretto, perché fondamentalmente rievoca e racconta fatti reali, di cronaca (nerissima, peraltro); non è però neanche un saggio, per quanto molti capitoli siano dedicati a una disamina accuratissima della società italiana (e in particolare romana) nei ribollenti anni Settanta; invenzione e realtà, per ammissione dello stesso Autore, coesistono in un impasto inscindibile, e la stessa voce narrante del protagonista potrebbe non aderire sempre a quella dell’Autore. Insomma, “La scuola cattolica” è una sorta di autobiografia romanzata imperniata sul Massacro del Circeo, evento-cardine che – a mo’ di hitchcockiano “McGuffin” – innesca il racconto pur restando sempre, fondamentalmente, a lato del medesimo, rispettosamente “fuori campo”, evocato ma affidato perlopiù alle allucinanti dichiarazioni di uno dei suoi protagonisti, quell’Angelo Izzo che nel 2005, durante un permesso-premio, ha ucciso nuovamente due donne, una madre e sua figlia. Come si può, del resto, raccontare un fatto così allucinante? Classico caso in cui la realtà supera la fantasia (come sarà nel 2001 per l’attacco alle Torri Gemelle), il delitto del Circeo è la terrificante madeleine di questa “Recherche” tutta romana, è l’evento (irrisolto, nonostante l’identità dei colpevoli sia nota a tutti, e per una volta non si possa parlare di “mistero italiano”) che a distanza di tanti anni ancora sconvolge Albinati, incapace di spiegarsi come un’educazione cattolica abbia potuto produrre tre belve simili.

O forse è proprio l’ipocrisia della scuola cattolica – e, per estensione, della borghesia di quegli anni nel Quartiere Trieste di Roma – ad aver generato i mostri? Ma ci può davvero essere una spiegazione univoca per un gesto tanto tremendo e gratuito? Come viene detto più volte nel libro, i tre assassini erano di ottima famiglia, non mancavano loro i mezzi economici e, per divertirsi, avrebbero ben potuto pagarsi qualunque distrazione: perché hanno avuto bisogno di rapire e violentare due ragazze di bassa estrazione, se non per un delirio di superomismo venato di assurde nostalgie fasciste e autoritarie? Insomma, nonostante il delitto sia risolto sul piano giudiziario, per Albinati – ma probabilmente per ampia parte dell’opinione pubblica italiana – esso resta un enigma storico e sociale, e poco importa che del terzo colpevole – quell’Andrea Ghira che si sarebbe rifugiato a Melilla arruolandosi nella Legione Straniera spagnola – si discuta ancora se è vivo o morto; Albinati non scrive un giallo, non gli interessa speculare su misteri veri o presunti, ma riporta i fatti con cronachistica lucidità e non chiude a nessuna possibilità.

Quello che gli interessa davvero è dipingere il panorama ampio e variegato della sua stessa giovinezza, di quella schizofrenia che colpì anche lui – l’insanabile spaltung tra la ricerca della rispettabilità borghese e la smania di autoaffermazione e di trasgressione. Pazientemente, soffertamente composto nel corso di più di quindici anni, “La scuola cattolica” non è tanto – come scrive Francesco Piccolo – “un’opera-mondo”, quanto piuttosto un’opera-monstre, che si allarga e si contrae continuamente, ampliando da un parte il racconto con episodi collaterali e lontani l’uno dall’altro nel tempo e, dall’altra, stringendolo attorno ai tre cardini rappresentati dal Quartiere Trieste, dal San Leone Magno e dal Delitto del Circeo, veri leitmotiv che tornano come sogni ricorrenti, come ossessioni mai superate. Leggendo, a volte si ha l’impressione che il libro non possa finire, perché la scrittura di Albinati prolifera e si dilunga, approfondisce e rievoca, e quando non riesce più a rievocare, inventa e arzigogola, ricama e torna inaspettatamente sul già detto, aggiungendo qualcosa, un particolare rivelatore, o un dettaglio che era rimasto nascosto.

Vera e propria, mastodontica, opera di auto-analisi, “La scuola cattolica” è il libro che avrebbe potuto scrivere lo sveviano Zeno Cosini se avesse dato veramente retta al dottor S. e si fosse confessato con massima sincerità, invece di imbrogliare il suo medico con un racconto di parte. L’accostamento a Proust, ovviamente, non sussiste sul piano stilistico, ma sul piano concettuale è più che proponibile, perché sembra esserci il Tempo al centro de “La scuola cattolica”, il tempo trascorso, la “forbice” che divide il protagonista dai fatti che rievoca, e da un presente che – nel libro – viene usato come continuo termine di paragone, come “piano mobile” della narrazione, punto d’origine allo stesso tempo incerto e familiare di questa profonda rievocazione personale che si apre a considerazioni generali, sulla Fede e sulla Storia, sulla società e su temi come la colpa e il conflitto generazionale.

Caratterizzato da una quasi totale assenza di trama propriamente detta, “La scuola cattolica” vive piuttosto di sottotrame – il Circeo è una di esse, forse neanche la più importante – alcune delle quali oggettivamente capaci di farsi ricordare: il dramma della cattolicissima famiglia Rummo; la conoscenza estiva tra l’Autore o, meglio (se vogliamo rispettare il parallelo proustiano), tra il Narratore e il giovane fascista Max, che si rifarà vivo in età adulta ma non scioglierà il mistero di un’infatuazione tanto imbarazzante quanto innegabile tra i due, all’epoca ragazzi; e ancora, l’enigma rappresentato da Arbus, il più geniale e, allo stesso tempo, il più irrisolto dei compagni di classe del Narratore, e da sua sorella Leda, protagonista (forse) di uno degli episodi collaterali più allucinanti del Quartiere Trieste, un omicidio mascherato da suicidio… Insomma, tante, tantissime storie e tanti, tantissimi personaggi (menzione particolare, oltre che per quelli già citati, anche per l’affascinante Coralla Martirolo e per il professor Cosmo) “abitano” le quasi 1.300 pagine di questo romanzo-fiume, costruito in anni di costante stesura, privo di una forma ben definita, basato sulla pura (e, si direbbe, quasi indiscriminata) proliferazione di racconti e riflessioni, eppure miracolosamente coerente nel complesso, scritto con uno stile perlopiù colloquiale e disadorno, non privo di finezze ma certo imparagonabile alla preziosissima cesellatura della Cattedrale proustiana, eppure efficace nel tratteggiare un quadro a tinte fosche dell’Italia a trent’anni dalla fine della Seconda Guerra Mondiale, un’Italia egualmente connotata da spinte progressiste e da un (neanche tanto sotterraneo) desiderio di ritorno al passato, a quegli anni in cui si stava peggio ma, tutto sommato, forse anche meglio…

Albinati gioca (forse troppo) a rimpiattino col lettore e continua, per centinaia di pagine, a dilazionare la trattazione degli argomenti più scottanti (il Circeo “entra in scena” solo dopo 500 pagine abbondanti!), ma il libro si legge con grande piacere, forse perché non si arrocca mai dietro la supponenza propria di altri Autori italiani contemporanei (due nomi su tutti? Scurati e Piperno!), preferendo intrattenere col lettore un rapporto quasi confidenziale, anzi, permettetemi di usare un termine impegnativo: confessionale! Ecco, “La scuola cattolica” è, alla fine, la lunga confessione di un uomo che ha rimandato per troppo tempo (un po’ come il Narratore, pur ripromettendoselo, non va mai ad assistere a una messa dall’inizio alla fine), e che finalmente “butta fuori tutto” non senza averci riflettuto (certo non si tratta di un “istant book”!) ma, forse, senza aver risolto la maggior parte degli enigmi di fondo. Lettura non per tutti, lunga ma non particolarmente difficile (anche perché non pretenziosa), capace di catturare nonostante la lunghezza, “La scuola cattolica” è di certo un libro che si stacca molto dal panorama letterario italiano contemporaneo – e questo, di per sé, è un merito non da poco.

(Recensione scritta ascoltando i Pink Floyd, “Echoes”)

PREGI:
nonostante le dimensioni imbarazzanti, è un libro che si fatica a smettere di leggere! Certo, alcuni capitoli sono (lunghe) dissertazioni sulla borghesia romana, sul Cristianesimo, sul significato della Fede e sulla divisione politica e ideologica dell’Italia post-bellica; non tutti i lettori possono essere interessati, ma se si ha tempo a disposizione e si legge senza forzare i ritmi, la scrittura di Albinati “passa” che è un piacere, e alla fine si resta quasi delusi dal fatto che il libro sia… già finito!  

DIFETTI:
un po’ troppo giocato sulle attese del lettore (a fronte di “rivelazioni” che, alla fine, non ci saranno o non saranno tali da giustificare una così smisurata dimensione del libro), è un romanzo venato di saggismo e di autobiografismo che si ammanta nella sua stessa indecifrabilità (è tutto vero? È vero solo in parte? Cosa c’è di inventato?) e non riesce a evitare di lasciare in bocca al lettore quella punta di amaro dovuta a un finale non così efficace e al “cadere nel vuoto” di tante sottotrame e di tanti personaggi, dei quali si sarebbe voluto (inevitabilmente) sapere di più… Certo, però: avercene, di libri così, nella letteratura italiana contemporanea!  

CITAZIONE:
“La scuola, un tempo, era un lungo e complicato gioco di premi e punizioni. Quando potevi dire di aver imparato le sue regole, di aver finalmente imparato a giocare, te ne andavi.” (pag. 387)

GIUDIZIO SINTETICO: ***½

LEGENDA RECENSIONI
Sia per i libri che per i film, adotto nel giudizio sintetico il sistema Mereghetti, che va da 0 a 4 stelline: a 0, ovviamente, i giudizi più negativi, a 4 quelli più positivi, con tutti i possibili gradi intermedi…

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NON GIUDICABILE con i sistemi ìclassiciî di voto
PESSIMO
QUASI PESSIMO
BRUTTO
BRUTTINO
 
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**1/2
***
***1/2
****
ACCETTABILE
DISCRETO
BUONO
MOLTO BUONO
CAPOLAVORO