LECTIO BREVIS / 129

Testi, pre-testi, divagazioni e spunti minimi intorno a libri letti, riletti, sfogliati

A cura di Roberto Mandile

PUNTATA 129
VEDI NAPOLI… E POI?
Miserie e nobiltà partenopee: cercando di evitare il luogo comune

Matilde Serao – IL VENTRE DI NAPOLI (1884-1904)

Di cosa parla: Allo scoppio di un’epidemia di colera, nel 1884, Napoli è una città da “sventrare”, secondo le intenzioni del governo Depretis: l’autrice ritiene, dunque, necessario, in vista dell’annunciato risanamento urbanistico, penetrare con il suo sguardo nei quartieri più poveri e degradati per far conoscere l’anima profonda della città (dove nessuno può rinunciare a giocare al lotto, anche nella miseria più disperata) e denunciare con indignazione le condizioni materiali di vita del popolo. A distanza di anni, e in seguito alla realizzazione di alcuni degli interventi annunciati, la scrittrice torna a descrivere la situazione, arrivando alla conclusione che la cattiva politica da un lato e una certa cultura popolare dall’altro restino un ostacolo a un rinnovamento radicale della città.

Commento: Composto di tre parti, la seconda e la terza scritte a vent’anni distanza dalla prima, è il libro-inchiesta (come si direbbe oggi) più celebre della scrittrice napoletana, nota per essere stata la prima donna a fondare e dirigere quotidiani, tra cui “Il Mattino”. Se il titolo, ispirato da una frase di Agostino Depretis (il libro è una sorta di lettera aperta allo stesso capo del governo), è altresì evocativo di un romanzo di Émile Zola, Il ventre di Parigi, pubblicato nel 1873, il testo rappresenta un felice incontro tra letteratura, giornalismo, antropologia e altre scienze umane. Riprendendo le teorie naturaliste di Zola, ci si può spingere ad affermare che siamo di fronte a una sorta di “romanzo sperimentale”, a patto di riconoscere che di romanzesco nel senso proprio del termine non c’è pressoché nulla. La lucidità dell’analisi è senz’altro il punto di forza del libro, capace di restituire, con l’esattezza di un saggio storico, il quadro di una realtà socio-economica brutale quale quella delle condizioni di vita del popolo napoletano sul finire dell’Ottocento (il secolo del progresso e della fiducia nella scienza!). Ma Matilde Serao non si accontenta di descrivere “scientificamente” ciò che, a volerlo vedere, è sotto gli occhi di tutti: alla scrittrice preme indagare le cause profonde, radicate nella cultura popolare, e così le pagine che forse colpiscono di più il lettore oggi sono quelle dedicate al lotto o all’alimentazione dei napoletani (la pizza non ne esce benissimo, con gran dispetto dei cantori del cibo tradizionale). Qui, come nelle pagine in cui l’autrice indugia nella descrizione di quadretti di vita, il tono asciutto cede talora a un certo lirismo, con il rischio – in realtà tenuto perlopiù a bada – di scivolare nel bozzettismo. Lettura utile anche a ridefinire i nostri giudizi nei confronti della politica e dei suoi legami con il malaffare, fenomeno antico almeno quanto l’Italia.    

GIUDIZIO: ***

Anna Maria Ortese – IL MARE NON BAGNA NAPOLI (1953)

Di cosa parla: Due racconti e tre reportage giornalistici. Nel primo racconto, Eugenia Quaglia, una bambina che abita in un quartiere povero di Napoli, è “quasi cecata”, secondo il medico che l’ha visitata a Roma: per curare la sua vista deve mettere un paio di occhiali: il costo – “ottomila lire, vive vive” – se lo sobbarca la zia Nunziata. Nel secondo racconto, Anastasia Finizio, che vive a Chiaia, alla soglia dei quarant’anni, non si è sposata e si è adattata a gestire con la madre un negozio di maglieria; la scoperta che, per il giorno di Natale, è tornato a Napoli, dopo anni, un uomo di cui, in gioventù, era stata innamorata, le fa credere di poter cambiare la propria vita. Gli altri testi sono, rispettivamente, descrizioni delle condizioni di miseria di alcuni luoghi di Napoli nel dopoguerra e un affresco degli intellettuali di sinistra che avevano fatto parte della rivista culturale “Sud”, pubblicata tra il 1945 e il 1947 nella città partenopea.

Commento: Il più celebre libro di Anna Maria Ortese è anche quello che, all’uscita (nella collana Einaudi “I Gettoni” curata da Elio Vittorini), suscitò più polemiche e portò l’autrice, che, molti anni dopo, se ne disse dispiaciuta, a non rimettere più piede a Napoli. Colpa, soprattutto, del lungo testo “Il silenzio della ragione”, in cui – come ebbe a dire Raffaele La Capria, uno degli intellettuali nominati – la scrittrice “ha avuto ben meno di un minimo di riguardo verso le persone, perché non di qualche frammento delle loro vite si è impadronita ma di tutto, e tutto ha spiattellato sotto gli occhi di tutti”. In realtà i testi più interessanti sono i primi due, ossia quelli di invenzione: nonostante Ortese abbia indicato come genesi del libro il suo odio viscerale nei confronti della realtà, si tratta di racconti estremamente eleganti, capaci di restituire, con una finezza di scrittura straordinaria, proprio il paradosso di fondo della realtà, ossia la distanza tra il mondo così come dovrebbe essere o vorremmo che fosse (incarnato, rispettivamente, negli occhiali di Eugenia e nella vita sognata da Anastasia) e il mondo così come si presenta, con le sue miserie materiali (che proprio la mancanza degli occhiali, anzi, ha consentito alla bambina di non vedere!) o spirituali (l’ambientazione natalizia, con i suoi riti e le sue promesse di felicità, stride fortemente con la vanificazione delle speranze di Anastasia). Su tutti i testi, racconti e non, si staglia il mito di Napoli, ossia la consapevolezza, che l’autrice esprime con chiarezza, che “esiste, nelle estreme e più lucenti terre del Sud, un ministero nascosto per la difesa della natura dalla ragione; un genio materno, d’illimitata potenza, alla cui cura gelosa e perpetua è affidato il sonno in cui dormono quelle popolazioni”.       

GIUDIZIO: ***

PRE-TESTI, DIVAGAZIONI
E SPUNTI MINIMI

Liberare Napoli, il luogo comune per eccellenza, dai luoghi comuni. Compito arduo ma necessario, a patto che ci si intenda su un punto: è possibile evitare un’immagine stereotipata di Napoli prescindendo dal suo paesaggio, dalla cartolina oleografica che la incornicia prima ancora di immergersi nei suoi suoni, nei suoi sapori, nelle sue contraddizioni? E, ancora, quello che oggi sa di luogo comune lo è sempre stato? O la percezione evolve col tempo e solo la stratificazione decennale consente di avvertire la banalità dietro certe immagini, certe frasi, certi discorsi? Dici Napoli e pensi alla musica, o alla poesia, che, secondo la nostra concezione post-romantica, vuol dire sentimento: il cerchio così si chiude e, scorrendo il lungo rosario di poesie (in versi o in musica) dedicate a Napoli, si ha quasi sempre l’impressione di trovarci un eccesso di sentimento. Poi, però, quando ci si rende conto che, se solo Napoli, tra le grandi città italiane, ha ispirato questo genere di testi, una qualche ragione ci deve essere. E così, non resta che abbandonarsi al sentimento, senza chiedersi troppo se il luogo comune sia stato alimentato dalla poesia o se la poesia sia comunque un tentativo di sfuggire al luogo comune.

A Giovanni Aliperti (1891-1958), poeta assai sfuggente, ad esempio, si deve un sonetto che affronta direttamente la questione “Vedi Napoli e poi muori”, rovesciandolo però nel finale: 

Se dice: “vide Napule e po’ muore”,
ma chi l’ha vista, nun vo’ maie murì
pecché ccà se fatica e se fa ammore
e chi patisce nun ‘o fa capì.

E si chillo che vene è n’ommo ‘e core
nun po’ fa a meno ‘e nun se ntennerì…
e quanno sente ‘o sisco d’o vapore
fa o’paro e sparo e nun vò cchiù partì.

E appriesso già se sape che succede:
succede ca ‘e stu passo, chiano chiano,
ognuno c’a sta terra mette pede

se scorda d’o paese suio luntano,
nnanze a o’ Vesuvio e ‘o mare cagna fede
se ncanta e vo’ restà napulitano!

Il tema viene sviluppato anche in una poesia di Totò, che la recitò in un video ancora facilmente reperibile, davanti a un tipico panorama partenopeo, con vista sul golfo di Napoli:

Tutte hanno scritto ‘e Napule canzone appassiunate,
tutte ‘e bellezze ‘e Napule sò state decantate:
da Bovio a Tagliaferri, Di Giacomo a Valente;
in prosa, vierze e musica: ma chi po ddi cchiù niente?
Chi tene ‘o curaggio ‘e di’ quaccosa
doppo ca sti puete gruosse assaie
d’accordo songo state a ddi una cosa:
ca stu paese nun se scorda maie.
Sta Napule, riggina d’ ‘e ssirene,
ca cchiù ‘a guardammo e cchiù ‘a vulimmo bbene.
‘A tengo sana sana dinto ‘e vvene,
‘a porto dinto ‘o core, ch’ aggia fà?
Napule, si comme ‘o zucchero,
terra d’ammore – che rarità!
Zuoccole, tammorre e femmene,
è ‘o core ‘e Napule ca vò cantà.
Napule, tu si adorabile,
siente stu core che te vò di:
“Zuoccole, tammorre e femmene,
chi è nato a Napule nce vo murì”.

Testi citati
Giovanni Aliperti – VIDE NAPULE (?)
Totò – ZUOCCOLE, TAMMORRE E FEMMENE (1967)