LECTIO BREVIS / 132

Testi, pre-testi, divagazioni e spunti minimi intorno a libri letti, riletti, sfogliati

A cura di Roberto Mandile

PUNTATA 132
AH SUDAMERICA, SUDAMERICA, SUDAMERICA
Dal Brasile al Perù, dal Cile all’Argentina, punti di contatto e differenze specifiche del (sub)continente latino

Jorge Amado – GABRIELLA GAROFANO E CANNELLA (1958)

Di cosa parla: Ilheus, nello stato di Bahia, in Brasile, è un porto importante per l’esportazione del cacao. A metà degli anni Venti, la città è teatro di accese lotte politiche tra i latifondisti più conservatori e chi si batte per la modernizzazione e il progresso. Nacib Saad, di origini siriane, gestisce il bar Vesuvio, assai frequentato; quando la sua anziana cuoca lo lascia, di punto in bianco, la ricerca disperata di una sostituta lo porterà a incontrare Gabriella, una giovane mulatta della regione del Sertão. Gabriella, dal colore della cannella e dal profumo di garofano, è bellissima, cucina benissimo ed è benvoluta da tutti al bar, al punto che Nacib non potrà non innamorarsene…

Commento: «Gabriella è buona, generosa, impulsiva, pura. Di lei si possono elencare qualità e difetti, ma spiegarli mai. Fa le cose che ama, respinge le cose che non vuole». In questo breve ritratto, abbozzato da un personaggio del romanzo, è condensato il carattere della donna intorno a cui ruota un libro dominato dalle figure maschili, che sono di gran lunga preponderanti, ma sono tutti come stregati dalla presenza di Gabriella. Una presenza che, fin dalla sua apparizione (quasi un’epifania), non lascia indifferente la città di Ilheus, scardinandone i canoni morali, ancora rigidamente tradizionalisti (come testimonia il duplice delitto d’onore che viene commesso) con la sua sola bellezza, fatta di giovinezza e della semplicità dei suoi atteggiamenti. Il suo alter ego è Mundinho Falcão, il ricco esportatore di cacao di San Paolo (anche lui un immigrato!) che, con le sue maniere gentili ma ferme, si oppone alle vecchie modalità di gestione del potere rappresentate dall’anziano fazendeiro Ramiro Bastos. Amado, nel suo romanzo più popolare, tradotto e adattato per il cinema e la tv, racconta la rivoluzione attraverso l’intrecciarsi di questi due filoni: quello amoroso e quello politico. E lo fa in uno stile ironico e lirico, in cui sono soprattutto i dialoghi a restituire il mutare dei costumi: lo scenario del bar, luogo per eccellenza delle chiacchiere, diventa l’ideale sfondo per una girandola di personaggi riusciti. E Nacib? L’arabo – questo il suo soprannome, nonostante sia brasiliano a tutti gli effetti, essendo nato in Siria ed essendosi trasferito in Sudamerica da bambino (è comunque un altro immigrato) – è soprattutto un osservatore dei fatti che accadono intorno a lui, anche di quelli che lo riguardano più da vicino: un po’ per il lavoro, che lo obbliga a evitare di esporsi troppo, un po’ per il carattere, egli ben rappresenta il punto di vista del lettore, condotto per mano dallo scrittore per cinquecento pagine alla scoperta di un Paese tanto presente nell’immaginario di tutti quanto lontano per molti aspetti della sua storia più recente.

GIUDIZIO: ***

Mario Vargas Llosa – LA CITTÀ E I CANI (1963)

Di cosa parla: Il Collegio Leoncio Prado di Lima, gestito da militari, è famoso per la rigidità con cui educa i ragazzi che, per le più varie ragioni, vi vengono indirizzati dalle rispettive famiglie. Qui si intrecciano le storie di un gruppo di adolescenti, inquadrati fin dall’ingresso non solo dalla rigorosissima disciplina militare, ma avvezzi a subire, nei primi anni, le angherie dei più grandi e pronti, una volta cresciuti, a ripetere gli stessi rituali di sopraffazione nei confronti dei più piccoli. Tra le vittime predestinate c’è Ricardo Arana, un ragazzo fragile e vessato da tutti i suoi compagni che lo hanno ribattezzato lo Schiavo; solo Alberto, detto il Poeta, pare aver intrecciato con lui una qualche forma di relazione, anche se non esiterà a fidanzarsi con Teresa, la ragazza amata da Ricardo. Le cose prenderanno però una piega ben più tragica nel corso di un’esercitazione con delle armi…

Commento: Il primo romanzo di Vargas Llosa, capolavoro indiscutibile, è, a rigore di genere, strettamente autobiografico (il Collegio Leoncio Prado fu frequentato dallo stesso autore), ma, come accade con i grandi scrittori, i riferimenti personali sono occultati abilmente nella trama e nello stile. Le scelte narrative sono di una maturità sorprendente per un esordiente (Vargas Llosa non aveva trent’anni al momento della pubblicazione), visto che l’autore decide di frammentare sul piano temporale il racconto e di destrutturarlo a livello di intreccio, con l’inserzione di flashback e l’adozione di tecniche che, affidando a narratori diversi il compito di comporre il puzzle della storia, spiazzano il lettore modificando continuamente il punto di vista. Spiazzante, d’altra parte, è la materia stessa del romanzo, che non si fa scrupolo, nemmeno sul piano linguistico, di mostrare da un lato la crudezza e l’ipocrisia della vita di collegio, dall’altro di scavare dietro le singole storie illuminando ciascun personaggio di una luce ambigua (si veda il caso del Giaguaro, protagonista dell’epilogo). Proprio la moltiplicazione dei punti di vista e la durezza di una lingua in cui nessuna parola è di troppo o fuori luogo sottrae il libro ai rischi tipici di molto autobiografismo. Persino le difficoltà di relazione tra Vargas Llosa e il padre si inseriscono, nel romanzo, all’interno di un quadro più ampio, in cui è la famiglia stessa a uscirne quasi sempre a pezzi. L’autore suggerisce in modo inequivoco che le responsabilità di un’educazione mancata non sono imputabili esclusivamente alle istituzioni che fanno del ricorso alla violenza il metodo stesso per regolare tutte le questioni pubbliche (all’uscita il libro fu bruciato in piazza e osteggiato dalle gerarchie militari del Perù), ma sono spesso da ricondurre alle varie ma tutte discutibili motivazioni che hanno portato i genitori (e i padri, in ispecie) ad affidare i propri figli a un collegio militare così rigido. La città del titolo, naturalmente, è Lima; i cani sono un riferimento al soprannome con cui i cadetti degli anni finali chiamano i ragazzi più piccoli, quando li sottopongono a degradanti riti di iniziazione.      

GIUDIZIO: ****

PRE-TESTI, DIVAGAZIONI
E SPUNTI MINIMI

Nella nostra distorta percezione, il Sudamerica è una sorta di unico, indistinto Eldorado, eterno mondo in via di sviluppo e proiezione di sfrenate utopie rivoluzionarie, gioia di vivere, il calcio come riscatto e la danza come linguaggio comune, ma anche un universo di favelas, dittature spietate e criminalità diffusa, incrocio di culture e luogo abissale del senso di colpa di noi europei sterminatori di popoli e cinici colonizzatori imperialisti. È chiaro che, anche volendo prescindere dalla realtà della storia, fatta, lì come altrove, di guerre e contrapposizioni, di tensioni e contrasti anche profondi, le differenze sono l’altra faccia del Sudamerica. E la letteratura (l’arte in genere) è l’unico linguaggio in grado di dare conto della complessità che attraversa un (sub)continente vasto una volta e mezzo l’Europa. Impossibile, naturalmente, in queste divagazioni offrire un quadro completo della pluralità di voci che hanno reso grande la letteratura sudamericana: troppe sarebbero le omissioni (la più evidente – la citiamo subito – quella di Gabriel García Márquez). Limitiamo e al tempo stesso, rispetto ai romanzi già segnalati, allarghiamo il campo citando almeno due casi esemplificativi del rapporto tra gli scrittori e il loro Paese, un rapporto fatto, come sempre, di appartenenza e anche di distacco, perché solo i luoghi di origine hanno il potere di plasmarci e di rivendicarci a loro nel momento stesso in cui ne prendiamo le distanze.

Così, se la popolarità di Pablo Neruda e della sua poesia è inscindibile dal Cile (lo scrittore morì dieci giorni dopo il golpe dei militari, che avevano devastato la sua casa di Santiago), è un grido amaro, quasi disperato, d’amore per la sua patria una poesia pubblicata una decina d’anni prima della sua scomparsa:

Nel cuore della notte mi assilla una domanda:
che ne sarà del Cile,
della mia povera patria incomprensibile?

Da quanto ho amato questa patria sottile,
queste pietre, queste zolle,
la persistente rosa
del litorale che vive con la schiuma,
sono tutt’uno ormai con la mia terra,
ho conosciuto i suoi figli ad uno ad uno
e mi ruotano dentro
le sue stagioni di pianto o di fiori.

Sento che ora, appena
trascorso l’anno morto dei dubbi,
quando l’errore che ci ha dissanguati
è finito e iniziamo a sommare ancora
il meglio, il giusto della vita,
ricompare la minaccia
e sul muro s’inalbera il rancore. 

Curiosamente dello stesso anno è pure il canto d’amore, anch’esso doloroso, che Jorge Luis Borges rivolge alla sua città natale, Buenos Aires, a cui già una quarantina d’anni prima aveva dedicato la prima giovanile raccolta di poesie (Fervore di Buenos Aires):

E la città, adesso, è come una mappa
delle mie umiliazioni e fallimenti;
da quella porta ho visto i tramonti
e davanti a quel marmo ho aspettato invano.
Qui l’incerto ieri e l’oggi diverso
mi hanno offerto i comuni casi
di ogni sorte umana; qui i miei passi
ordiscono il loro incalcolabile labirinto.
Qui la sera cenerognola aspetta
il frutto che le deve il mattino;
qui la mia ombra nella non meno vana
ombra finale si perderà, leggera.
Non ci unisce l’amore ma lo spavento;
sarà per questo che l’amo tanto.

Testi citati
Pablo Neruda – INSONNIA, in “Memoriale di Isla Negra” – traduzione di Roberto Paoli (1964)
Jorge Luis Borges – BUENOS AIRES, in “L’altro, lo stesso” – traduzione di Livio Bacchi Wilcock (1964)