LECTIO BREVIS / 136

Testi, pre-testi, divagazioni e spunti minimi intorno a libri letti, riletti, sfogliati

A cura di Roberto Mandile

PUNTATA 136
IL GIAPPONE E NOI
Influenze e rapporti tra il Sol Levante e l’Occidente: tradizione e modernità

Murakami Haruki – NORWEGIAN WOOD (1987)

Di cosa parla: Atterrato ad Amburgo, il trentasettenne Watanabe Tōru ricorda alcuni episodi della sua giovinezza, alla fine degli anni Sessanta, a partire dal momento in cui, studente universitario quasi ventenne a Tokio, rincontra Naoko, sua ex compagna di liceo che non vede dal funerale di Kizuki, fidanzato della ragazza e suo grande amico, morto suicida a diciassette anni. La relazione con Naoko è segnata dalla malattia mentale di lei che la porterà a un ricovero presso un istituto psichiatrico. Nel frattempo, Watanabe stringe amicizia con Midori, compagna di studi universitari estroversa e anticonformista, a sua volta segnata da difficili vicende familiari…

Commento: Scritto durante un soggiorno europeo tra la Grecia e l’Italia (precisamente a Mykonos e a Roma), il quinto romanzo dello scrittore giapponese è frutto – per ammissione dello stesso autore – di un ritorno al realismo dopo le opere precedenti e, al contempo, espressione della forte influenza della cultura occidentale sulla sua formazione. Attraverso velate allusioni autobiografiche, nella vicenda del protagonista, al centro di una vera e propria educazione sentimentale, si legge con facilità l’impronta determinante che sulla forma romanzo, di per sé estranea alla letteratura tradizionale giapponese, ha esercitato per Murakami la letteratura europea e americana (i riferimenti al David Copperfield di Dickens e a Il giovane Holden di Salinger sono esplicitamente rivelati dall’io narrante). Ma, fin dal titolo e, com’è ovvio, dall’ambientazione, è soprattutto alla musica pop che si deve l’accelerazione del processo di modernizzazione di un Paese orgogliosamente ancorato alla sua storia. E così, in una sorta di (facile) associazione proustiana, l’ascolto, a quasi vent’anni di distanza, di Norwegian Wood, la canzone dei Beatles, è in grado di innescare i ricordi di Watanabe Tōru: e i tardi anni Sessanta di Tokyo, tra contestazione studentesca, ricerca di una sessualità più libera e il sottofondo costante della musica leggera, finiscono per assomigliare a quelli di una qualunque città europea o americana. La scrittura di Murakami è avvolgente e pudica, attenta alle sfumature sentimentali e capace di stendere sulle cose che racconta (e le tragedie che attraversano le pagine non sono poche né lievi) un velo di malinconia impalpabile eppure capace di lasciare un’impronta profonda, proprio come fa una canzone d’amore che, per quanto triste possa essere, suona sempre addolcita nella memoria di chi la associa alla propria giovinezza.    

GIUDIZIO: ***

Banana Yoshimoto – KITCHEN (1988)

Di cosa parla: Mikage Sakurai è una ragazza appassionata di cucina e di cucine (sono le sue stanze preferite della casa). Dopo la perdita dell’amata nonna, accetta l’invito di Yūichi Tanabe, un suo compagno di scuola, a trasferirsi nella sua casa, dove egli vive con la madre, Eriko. Quest’ultima – scoprirà Mikage – è in realtà il padre transessuale di Yūichi. La convivenza si rivela felice e cambia le vite di tutti e tre, fino a che…

Commento: Il primo romanzo (breve) dell’autrice, ventiquattrenne all’epoca della pubblicazione – dell’anno prima è il racconto (lungo) Moonlight Shadow, sua tesi di laurea – fu un successo mondiale. Alla fine degli anni Ottanta, la cultura pop giapponese aveva cominciato a invadere l’Occidente soprattutto attraverso i cartoni animati, che diffusero, mutuandoli dai manga, stilemi e modalità narrative inedite e destinate a grande successo. Sappiamo di scontentare molti fan, ma a noi, sinceramente, il romanzo è parso fragile non per la trama in sé, che pure è esilissima, non per i riferimenti che – colpa nostra – non abbiamo colto o apprezzato a certa letteratura di consumo giapponese, ma per lo stile e per la lingua, che ce lo fanno apparire non dissimile da tanti romanzetti rosa di cui anche dalle nostre parti siamo campioni. La filosofia spiccia che Mikage ricava dalle sue esperienze non ci pare dischiudere chissà quali profondi abissi di conoscenza. A sentirla dire, ad esempio, che “sono molti i giorni in cui tutto va così male che la vita sembra un incubo” o che, diventata grande, “soffrirò molte volte e molte volte mi rimetterò in piedi”, ma “non mi lascerò sconfiggere”; o ancora, che “ognuno di noi pensa di avere molte strade e di potere scegliere da sé”, ma “forse sarebbe forse più esatto dire che sogna il momento di scegliere”, si affaccia il dubbio che, al di sotto della semplicità del racconto (qualità in genere apprezzabile in letteratura), si nasconda un’ingenuità di fondo (o, a voler essere maliziosi, una ricercata furbizia) che sa plasmarsi solo in banalità adolescenziali. Ecco, forse a favore di Banana Yoshimoto gioca il facile rispecchiamento che un lettore senza pretese (ma che, probabilmente, si definirebbe “sensibile e in cerca di emozioni”) può trovare in un certo sentimentalismo spruzzato di spiritualità a buon mercato e oniriche divagazioni. Ma anche noi abbiamo un qualche grado di romanticismo, in base al quale siamo abituati a valutare la letteratura dal suo livello di originalità: e francamente abbiamo faticato a trovare qualcosa di interessante nelle cento pagine del libro.  

GIUDIZIO: *½

PRE-TESTI, DIVAGAZIONI
E SPUNTI MINIMI

Il Giappone e noi. Prima dei manga e degli anime, del judo e del sushi, a partire dalla metà dell’Ottocento la cultura nipponica ha esercitato un fascino crescente sull’Europa. L’arrivo delle giapponeserie, che tanto piacevano a Charles Baudelaire; la passione per le stampe giapponesi, che scoppiò a Parigi e si estese nelle principali capitali del Vecchio Continente; la diffusione, nelle case più alla moda, di ninnoli, oggetti d’arredamento o di decorazione provenienti direttamente dal Giappone o ispirati al gusto del Paese del Sol Levante sono fenomeni noti. Forse meno risaputa è la passione nei confronti della letteratura giapponese che contagiò alcuni letterati, tra cui, ad esempio, Gabriele D’Annunzio, che non solo ebbe un rapporto molto stretto con scrittori e intellettuali giapponesi ma ebbe, a sua volta, grande successo in quel Paese, dove alcune sue opere furono tradotte e ammirate. Il Vate, a sua volta, omaggiò la tradizione nipponica componendo una poesia modellata sullo schema del tanka o waka, una delle forme tipiche della poesia giapponese. Il testo si intitola Outa occidentale (outa è la traslitterazione francese di uta, “canzone” in giapponese) e prova ad adattare all’italiano non solo le regole prosodiche ma anche le atmosfere e l’ispirazione caratteristiche della poesia orientale:

Guarda la Luna
tra li alberi fioriti;
e par che inviti
ad amar sotto i miti
incanti ch’ella aduna.

Veggo da i lidi
selvagge gru passare
con lunghi gridi
in vol triangolare
su ’l grande occhio lunare.

Veggo pe ’l lume
le donne entro i burchielli:
vanno su ’l fiume,
date all’acqua i capelli,
tra i gridi delli uccelli.

Tende ogni amante
all’amante le braccia
e a sè l’allaccia
entro la bianca traccia
de l’astro radiante.

Passan li uccelli.
Oh chiome feminili,
chiome gentili,
lunghe reti sottili
tratte dietro i burchielli!

Oh di roseti
profondi laberinti
ove i poeti
in giacigli segreti
stanno alle belle avvinti!

La nostra nave,
cui non pinse Ki-Tsora,
va con soave
andare; e su la prora
tu ti stendi, o signora.

I tuoi capelli
sciolti hanno il fresco odore
dei ramoscelli
che ondeggian lenti, in fiore,
con sommesso romore.

La tua man breve,
passando,
i fiori coglie:
par tra le foglie,
tra i calici di neve
una farfalla, lieve.

Ma, come pieno
è il grembo, ti riposi:
palpita il seno,
bevono il gran sereno
li occhi meravigliosi;

e dolcemente
stan su i fiori adagiate
le mani. – Oh fate,
belle mani adorate,
il gesto che consente!

Ciascuna delle strofe che compongono la poesia di D’Annunzio riprende, come si diceva, la struttura metrica del tanka o waka, il componimento giapponese composto da cinque versi (di 5,7,5,7,7 sillabe). Dal tanka, a sua volta, deriva l’haiku, il più celebre genere poetico della letteratura giapponese, nato, secondo la tradizione, nel XVII secolo con Matsuo Bashō. L’haiku ebbe un tale successo in Occidente che non si contano i poeti novecenteschi europei e americani che si sono cimentati nella composizione di questo tipo di poesia, da Federico García Lorca a Ezra Pound, da Allen Ginsberg a Rainer Maria Rilke, da Jorge Luis Borges a Octavio Paz.

Per restare in Italia, citiamo almeno Mario Chini, Edoardo Sanguineti e Andrea Zanzotto, cui si deve una curiosa raccolta bilingue, in italiano e in inglese, dal titolo Haiku for a season – Haiku per una stagione, in cui lo sperimentalismo del poeta finisce, per certi aspetti, col tradire lo spirito tradizionale dell’haiku giapponese, dimostrando, proprio per questo però, la vitalità di un genere così di successo, come testimonia questo esempio quasi metaletterario:

Haiku of an unforeseen daybreak
maybe mine – maybe drawls
or mini-noises of other universes   

Haiku di un’alba inattesa
forse mia – forse cenni
o sussurri di altri universi

Testi citati
Gabriele D’Annunzio – OUTA OCCIDENTALE, in “Isaotta Guttadàuro e altre poesie” (1886)
Andrea Zanzotto – HAIKU OF AN UNFORSEEN DAYBREAK, in “Haiku for a season – Haiku per una stagione” (2012)