# 70 – Natalia Ginzburg – LESSICO FAMIGLIARE (Einaudi, 1997, ed. orig. 1963 – pag. 219
Senza filtro narrativo, ma come autentico flusso autobiografico, l’Autrice racconta – a partire dal ricordo di alcune bizzarre locuzioni utilizzate nella sua famiglia (ma ogni famiglia ha le sue, beninteso) – una congerie di fatti che coprono gli anni che vanno dalla sua infanzia al presente del libro, pubblicato nel 1963 e vincitore – allora – del Premio Strega.
Dal padre Giuseppe Levi, tonitruante e irascibile, ma innocuo e anzi sinceramente affezionato ai figli, alla madre Lidia Tanzi, ironica e un po’ dimessa; dai fratelli Gino, Mario, Alberto e Paola ai grandi dell’imprenditoria (Adriano Olivetti) e della letteratura (Cesare Pavese), i ricordi di Natalia Ginzburg si dipanano dolci e ondivaghi tra volti e frasi, a tratti distesi sino ad abbracciare intere epoche (ad esempio il Ventennio fascista), altre volte istantanei e nervosi come incongrue punture di spillo. Il principale pregio del libro è, infatti, anche il suo più terribile difetto: l’irresolutezza! Nulla porta a nulla, non c’è una “forma” nel ricordare affastellato di Natalia Ginzburg, che sembra procedere – proustianamente, lei che è tuttora la miglior traduttrice della “Strada di Swann”! – per analogie, ma non analogie controllate e guidate, bensì selvagge e galoppanti, tanto che non si riesce a ricostruire un vero e proprio arco narrativo del libro: bisogna accontentarsi di dire che esso rievoca l’infanzia dell’Autrice e poi, attraverso i ricordi più vari (la fuga di Filippo Turati, la morte di Leone Ginzburg, ovviamente, e cento altre micro-storie che vanno dalla forma di un vestito alle conversazioni con Cesare Pavese!), approda all’oggi, agli anni ’60, a una Natalia Ginzburg ormai famosa scrittrice e traduttrice che, risposatasi, ha lasciato la sua Torino e vive a Roma.
Ma il passato – diceva Faulkner – non passa mai del tutto, e così certe sensazioni, certi stati d’animo continuano a vivere negli “sbrodeghezzi”, nei “potacci” e nelle “sempiezze” del padre Giuseppe, o nelle sottili lamentationes della mamma Lidia, o in una qualunque frase che, appena pronunciata, riporta immediatamente l’Autrice ai tempi lontani della sua infanzia. Molti di voi penseranno alla tazza di tisana della “Recherche”, dentro la quale si apre un mondo intero. Sì, c’è Proust in questo fortunato libro di una delle sue migliori traduttrici italiane, ma non tanto quanto si potrebbe credere: di Proust, purtroppo, mancano completamente l’approccio e lo stile. La materia dell’intero libro, infatti, in Proust sarebbe sufficiente per appena un capitolo, perché la Ginzburg sembra rinunziare del tutto ad approfondire e “far vivere” buona parte delle cose che rievoca, che restano lì sospese come curiosi dati di fatto, e non entrano mai nel territorio vivo della coscienza.
E lo stile, che in Proust costruisce una narrazione nuova e originalissima, nel caso della Ginzburg è nervoso, e persino – a tratti – un po’ ripetitivo e abborracciato, come se l’Autrice avesse, sotto sotto, in orrore il suo essere “letterata” e volesse travestirsi, più spesso del necessario, da “donna qualsiasi” che – è vero – ha conosciuto gli Olivetti, e Turati, e Anna Kuliscioff, e Cesare Pavese, e Giulio Einaudi e via almanaccando, ma che non per questo vuole rischiare che la si accusi di elitarismo o – peggio ancora! – di essere una borghese! Insomma, nel suo sforzo di essere “naïf”, il libro francamente fa nascere qualche sospetto sulla sincerità dell’ispirazione; tuttavia, resta una gradevole lettura infarcita di “torinesità” e di aneddoti divertenti e drammatici, comici e tragici, senza mai una caduta nel melodramma – nemmeno davanti alla morte, che anzi è raccontata con compostissima, quasi eccessiva semplicità – ma anche, mi sia concesso, senza mai toccare vette particolarmente elevate di valore letterario e narrativo.
(Recensione scritta ascoltando i Manchester Orchestra, “The Silence”)
PREGI:
una scrittura piana e sottilmente divertita, sicuramente molto consapevole di sé anche quando finge di non esserlo…
DIFETTI:
l’Io narrante dell’Autrice dimentica troppo a lungo… l’Autrice stessa, che è la grande assente da queste memorie per buoni tre quarti di libro! Osservativo e capzioso, il racconto sembra bearsi un po’ troppo della sua mancanza (pur lecita) di forma e direzione
CITAZIONE:
“Noi siamo cinque fratelli. Abitiamo in città diverse, alcuni di noi stanno all’estero: e non ci scriviamo spesso. Quando c’incontriamo, possiamo essere, l’uno con l’altro, indifferenti o distratti. Ma basta, fra noi, una parola. Basta una parola, una frase: una di quelle frasi antiche, sentite e ripetute infinite volte, nel tempo della nostra infanzia. […] Una di quelle frasi o parole, ci farebbe riconoscere l’uno con l’altro, noi fratelli, nel buio d’una grotta, fra milioni di persone. Quelle frasi sono il nostro latino, il vocabolario dei nostri giorni andati […] la testimonianza d’un nucleo vitale che ha cessato di esistere, ma che sopravvive nei suoi testi, salvati dalla furia delle acque, dalla corrosione del tempo. Quelle frasi sono il fondamento della nostra unità familiare.” (pagg. 24-25)
GIUDIZIO SINTETICO: **½
LEGENDA RECENSIONI
Sia per i libri che per i film, adotto nel giudizio sintetico il sistema Mereghetti, che va da 0 a 4 stelline: a 0, ovviamente, i giudizi più negativi, a 4 quelli più positivi, con tutti i possibili gradi intermedi…