# 52 – Massimiliano Santarossa – VIAGGIO NELLA NOTTE (Hacca, 2012, pag. 134)
Un operaio trentenne già devastato dal lavoro in fabbrica – ereditato da suo padre – e da una vita infame in un informe sobborgo di periferia, vive la sua ultima giornata, tra lavoro, luoghi e volti noti di un mondo in disfacimento eppure sempre lì, sempre sotto i suoi occhi, eterno e immutabile nel suo orrore.
Una trama estremamente scarna che vorrebbe essere sorretta da uno stile densissimo e disperante: così si potrebbe sintetizzare la natura ultima di questo bizzarro libro di Massimiliano Santarossa (e poi mi accusano di non leggere gli autori italiani!).
Purtroppo, in questo romanzo, non tutto funziona, anzi, per la verità quasi nulla funziona come dovrebbe. Il viaggio agli Inferi, infatti, è incredibilmente programmatico e prevedibile, tappa dopo tappa: la fabbrica, il bar popolato da sfasciati, il cimitero, i palazzoni di periferia, la prostituta di colore…
C’è tutto, c’è troppo in questo esile, sgradevole libretto, la cui sgradevolezza, certamente voluta dall’Autore, che non ci risparmia nulla, con uno stile fitto di ripetizioni da litania della disperazione, è però anche francamente eccessiva.
Insomma, un certo Émile Zola, giusto per fare un nome a caso, era ben capace di descrivere ambienti anche più infernali di quello immaginato da Santarossa (un esempio su tutti: la miniera di “Germinale”!) senza abbandonarsi a uno stile così sfrenato e spesso ridicolmente carico, in cui una Cristologia sin troppo facile si mescola al tentativo di descrivere le periferie industriali con quello che qualche critico chiamerebbe forse – con formula abusata – “crudo realismo pasoliniano”. La lettura – nonostante la brevità del libro – è faticosa e un po’ stordente: a volte si stenta a credere al fuoco di fila di aggettivi inusuali e di formule quasi liturgiche che l’Autore, pur senza essere Burroughs!, si permette di utilizzare. A che scopo? Farci percepire tutto l’esagerato orrore di una vita votata al nulla? Di tante vite come quella del protagonista? “Viaggio nella notte”, però, non è uno spaccato sociale, non può esserlo, perché ogni elemento è caricato all’estremo, come in una graphic novel di quelle tetre, alla “Sin City”, per intenderci, ma senza neppure una pallida ombra di ironia!
Ed è proprio questo il difetto principale di un testo che si prende tremendamente, esageratamente sul serio, che non sa minimamente sorridere di sé stesso, che non lascia al lettore neppure un attimo di tregua, nella speranza di farlo sentire in colpa per aver ignorato, fino ad ora, il triste destino degli operai e dei figli degli operai. Qualcuno ha citato Irvine Welsh, come modello per Santarossa: ma scherziamo?, dico io. La scrittura di Welsh – piaccia o meno – è ironica, graffiante, scatenata e divertente, e riesce a far riflettere sulle brutture del mondo (o di un certo mondo) in modo efficace e attraente, accettando quell’ambiguità di fondo che sempre caratterizza i romanzi anche più “duri” e disperati, quando sono piacevoli da leggere. Insomma, persino “Pasto Nudo” di Burroughs – atroce viaggio nella tossicodipendenza più sfrenata – a tratti fa ridere alle lacrime! E in questo risiede la sua tremenda efficacia.
La litania autocompiaciuta di Santarossa invece non ha neanche un grammo di efficacia: incubo in formato cartaceo, sopra le righe in tutto, ma proprio in tutto, fa desiderare l’ultima pagina col suicidio del protagonista senza volto e senza nome per riporlo sullo scaffale, dimenticarlo, e prendersi, magari, un buon Jonathan Coe (ah, che sollievo!) oppure, se proprio vogliamo restare nell’alveo della “durezza letteraria”, un Ballard o un Bukowski: Santarossa, se accetta un consiglio, provi a leggersi “Crash” o “Factotum”. Ci ritroverà la stessa disperazione che lei ha provato a descrivere col suo stile tonitruante, veicolata però da una scrittura che non molla dalla prima all’ultima pagina. E poi mi dicono che non leggo gli italiani!
(Recensione scritta ascoltando gli Apparat, “Caronte”)
PREGI:
Qualche locuzione azzeccata, di stampo più poetico che narrativo, di tanto in tanto fa pensare che il libro abbia una ragion d’essere
DIFETTI:
Pesante come un quintale di pasta al forno mal cotta, il libro è solo in parte riscattato dalla brevità. Si può capire l’intenzione di descrivere quella che non è tanto una “discesa agli Inferi” quanto una “condizione infernale permanente”, ma la scelta di uno stile così denso e assoluto sarebbe giustificata solo se si sapesse scrivere come un certo Carlo Emilio Gadda. Non è il caso di Santarossa…
CITAZIONE:
“Terribile è restare in questo grigio, sotto questo cielo di cenere, sotto questo sole che non arriva, eternamente figli di questo dio che non ci desidera. E allora penso che i pochi che supplicano e invocano la fine, i pochi che hanno occhi per vedere, nella fine riconoscono ciò che la fine davvero è, un bianco tenue, un bianco che non splende, un bianco che non acceca, un bianco che accetta senza chiedere, e dove tutto si perde.” (pag. 73)
GIUDIZIO SINTETICO: °
LEGENDA RECENSIONI
Sia per i libri che per i film, adotto nel giudizio sintetico il “sistema Mereghetti”, che va da 0 a 4 “stelline”: a 0, ovviamente, i giudizi più negativi, a 4 quelli più positivi, con tutti i possibili gradi intermedi…