# 300 – Miguel de Cervantes Saavedra – DON CHISCIOTTE DELLA MANCIA (Einaudi, 1978, ediz. orig. 1605-1615, pagg. 1.185)
L’hidalgo Alonso Quijano, che vive in un paese della Mancia assieme alla giovane nipote e a una governante, dopo essersi infarcito di letture di romanzi cavallereschi, si mette in testa di essere a sua volta un cavaliere errante sulla falsariga di Amadigi di Gaula o dell’Orlando ariostesco. Armatosi di tutto punto e dotatosi di una cavalcatura, il mitico Ronzinante, e di uno scudiero, l’ignorante contadinotto di buon cuore Sancio Panza, Quijano si cambia nome in Don Chisciotte della Mancia (in originale Don Quijote) e parte assieme a Sancio alla ricerca di avventure, di torti da aggiustare, di pulzelle di cui ergersi a difensore e paladino, ma con in mente un’unica donna, nella tradizione dei cavalieri erranti, che hanno un amore e uno soltanto. Quello di Don Chisciotte è Dulcinea del Toboso, falsa nobildonna e vera contadina (col più prosaico nome di Aldonza Lorenzo), scelta a sua insaputa dall’insano hidalgo come sua inarrivabile dama. Tra locande scambiate per castelli e mulini a vento scambiati per giganti dalle molte braccia, tra furfanti e pastori, amori contrastati e fughe rocambolesche, tra burle e duelli, il viaggio del Cavaliere dalla Trista Figura (come viene presto battezzato) e del suo fedele e brontolante scudiero diventa una straordinaria riflessione sul conflitto tra realtà e letteratura, in un mondo – a cavallo tra XVI e XVII secolo – attraversato da grandi tensioni e da passioni religiose, dominato politicamente e filosoficamente dal braccio di ferro tra Mori e Cristiani, ovvero tra Turchi ed Europei, un mondo che intravede la modernità ma non la possiede ancora.
Presentata come la rielaborazione del manoscritto di un immaginario storico arabo, Cide Hamete Benengeli, la più importante e nota opera di Cervantes (che è anche il libro più venduto di tutti i tempi) uscì in due volumi, pubblicati a distanza di dieci anni uno dall’altro (diremo più avanti perché). Poderosa liquidazione del romanzo cavalleresco e scatenata, fantasmagorica sarabanda picaresca sospesa tra il comico e il tragico, vero e proprio atto fondativo culturale e formale della lingua spagnola, “Don Chisciotte della Mancia” è un libro dall’intelligenza diabolica, attraversato da una poesia e da una sensibilità uniche, ma caratterizzato anche, e soprattutto, da una struttura stupefacente, un libro realmente in anticipo sui tempi, tanto da aver per certi aspetti prefigurato l’importanza che, molto più avanti, la malattia avrebbe assunto nell’arte e nella narrativa. Non che non esistano esempi precedenti di malattia mentale in narrativa: a partire dall’ “Orlando furioso”, più volte citato nel “Don Chisciotte”, indietro fino alle “Baccanti” di Euripide e passando attraverso una miriade di esempi, la follia e la psicosi sono sempre state gradite ospiti della letteratura. Mai, però, avevano rappresentato – come nel “Don Chisciotte” – l’essenza stessa del protagonista e della riflessione dell’Autore.
Chi è, infatti, il protagonista di “Don Chisciotte della Mancia”? Il signor Alonso Quijano, hidalgo come tanti altri che, infarcito di perniciose letture (i libri di cavalleria, che potremmo paragonare ai blockbuster hollywoodiani d’oggi), si sveglia un bel mattino credendosi a sua volta cavaliere errante, e iniziando a comportarsi come tale (che sarebbe come se qualcuno, oggidì, iniziasse a comportarsi come uno dei tanti personaggi eroici interpretati da un Jason Statham, o come un supereroe alla Batman o alla Superman). I suoi amici – il barbiere, il parroco, il baccelliere Carrasco – sanno benissimo che Quijano è malato, e più volte nel corso del libro tentano, senza successo, di farlo rinsavire (non rinunciando, però, a divertirsi un po’ alle sue spalle). L’invasamento cavalleresco il cui l’hidalgo è caduto non gli lascia scampo, e anche se la sua fedele governante e la nipote, brusca ma fondamentalmente benintenzionata, arrivano a bruciargli tutti i libri di cavalleria e a far murare la stanza in cui li conservava, Alonso Quijano ormai si sente Don Chisciotte, erede della lunga tradizione che discende da Amadigi di Gaula, da Re Artù, da Lancillotto e da Orlando.
Mantenendosi in miracoloso equilibrio tra fantasmagoria e plausibilità, Cervantes riempie la narrazione di episodi comici (le locande scambiate per castelli, i tanti fraintendimenti, le disavventure di Sancio) e picareschi, facendo muovere i suoi personaggi in un mondo che è già scivolato oltre la cavalleria, un mondo di conflitti e contrasti, di guerre e carestie, in cui in fondo la letteratura non faceva nulla di male, anzi, poteva rappresentare una consolazione, uno svago come oggi il cinema. Quello di Cervantes è lo stesso mondo di Caravaggio, e il parallelo tra i due personaggi non è solo una suggestione, se si pensa che – nonostante la differenza d’età: Caravaggio nasce nel 1571, quando Cervantes è già impegnato a combattere la battaglia di Lepanto, durante la quale peraltro perderà l’uso della mano sinistra e si doterà del curioso nome “Saavedra”, derivato forse dall’arabo shaibedraa, “monco” – se si pensa che, dicevo, entrambi vissero tra stenti e difficoltà economiche, entrambi furono grandi artisti non del tutto compresi dalla loro epoca (forse perché troppo in anticipo sui tempi) ed entrambi, incredibile a dirsi, dovettero andare in esilio perché colpevoli di un fatto di sangue!
Entrambi conobbero l’esperienza della prigione (pare anzi che il “Don Chisciotte” sia stato iniziato in cella da Cervantes), entrambi ebbero una vita tutt’altro che tranquilla, anche se quella di Caravaggio fu indubbiamente molto più breve di quella di Cervantes, e si concluse in modo più drammatico. Entrambi, infine, rappresentarono nelle loro opere un mondo attraversato da grandi tensioni sociali e politiche (il conflitto tra francesi e spagnoli nella Roma papalina per Caravaggio, il più ampio scontro tra Cristiani e Musulmani per Cervantes, che peraltro fu per anni prigioniero dei Mori ad Algeri), ed entrambi ebbero uno sguardo comprensivo e interessato nei confronti degli ultimi, della vita dei bassifondi, della povera gente e dei diseredati, di cui Sancio Panza, contadino analfabeta ma infarcito di saggezza popolare è, se vogliamo, il simbolo supremo.
Caravaggio, “I bari” (olio su tela, 1594) Caravaggio, “Decollazione di San Giovanni Battista” (olio su tela, 1608)
Nei quadri di Caravaggio vediamo il mondo di Cervantes, quel mondo fatto di locande disadorne, di prostitute, di faccendieri, di soldati di ventura al soldo ora dell’uno ora dell’altro, come capita e a seconda di chi paga meglio, e ancora, di bari, di mascalzoni senza scrupoli, di sbirri che tentano di mantenere un impossibile ordine in questo calderone ribollente di fame e di passioni, di voglia di sopravvivere e di terrore per una morte che potrebbe anche arrivare improvvisa e crudele, in una battaglia, in una rissa di strada, in un’impresa disperata. Vere e proprie rappresentazioni dell’inquietudine di un’intera epoca, le opere di Cervantes e di Caravaggio sono anche dei geniali giochi meta-linguistici, e si divertono a sfondare la sottile membrana che divide il lettore (o lo spettatore) dall’opera stessa. Infatti, in Caravaggio abbondano le prospettive tendenti a portare la materia del quadro fuori dal quadro stesso, e si sprecano le allusioni e la ricerca di una inedita complicità da parte dello spettatore, a partire dall’utilizzo di modelli reali e riconoscibili, mentre in Cervantes il libro stesso è (anche) gioco letterario, ponendosi come riscrittura d’un originale arabo (curato dal sopracitato Cide Hamete Benengeli) e, soprattutto, mettendosi in scena apertamente: i personaggi sanno dell’esistenza del libro, lo citano spesso e, anzi, lo paragonano al sequel spurio (realmente esistente!) che un mediocre scrittore diede alle stampe nella speranza di cavalcare il successo dell’originale, e costringendo Cervantes a scrivere una inizialmente non prevista seconda parte “ufficiale” delle avventure del suo bislacco cavaliere mancego.
Eh sì, in pochi lo sanno, ma il “Don Chisciotte”, più che un libro diviso in due parti, è proprio una coppia di libri distinti che, a distanza di dieci anni uno dall’altro, raccontano le prime avventure dell’ingenioso hidalgo e, successivamente, la sua nuova caduta nella follia e la sua ripartenza, dopo alcuni mesi tranquilli, con il fido scudiero Sancio Panza, alla ricerca di altri torti da aggiustare e di altri incantamenti da interrompere. Stilisticamente molto compatti, i due libri differiscono proprio per il livello di consapevolezza interna: il primo è una geniale rielaborazione delle avventure cavalleresche, e contiene episodi entrati nella storia della letteratura di tutti i tempi come la battaglia contro i mulini a vento e il meraviglioso racconto di Zoraide e della sua fuga da Algeri (che sicuramente contiene molti elementi autobiografici, visto che anche Cervantes dovette fuggire da Algeri per far ritorno da uomo libero in Spagna, dopo anni di prigionia); il secondo è addirittura meta-letterario, visto che Don Chisciotte decide di ritornare in sella a Ronzinante… per smentire il pessimo libro che è stato pubblicato su di lui, e che narrerebbe la seconda parte delle sue avventure!
Insomma, le nuove avventure nascono dalla volontà del personaggio di sbugiardare un Autore! Travestimenti, incantamenti, agnizioni, svelamenti, burle complicatissime ma anche azione pura, e un linguaggio fiammeggiante e modernissimo, fanno di “Don Chisciotte della Mancia” un capolavoro assoluto, un libro senza eguali, citato ovunque (anche se perlopiù a sproposito) e capace di parlare a chiunque, perché in fondo costruito sulla base di un’umanità sofferente e povera, abbandonata a sé stessa e tremebonda, insicura e dilaniata da guerre e incertezze, conquiste e carestie, quell’umanità che Michelangelo Merisi trovava nelle taverne della Roma del tardo Cinquecento e in mezzo alla quale Cervantes ha vissuto tutta la vita, un’umanità autentica e derelitta che esiste tuttora, pur sotto la sempre più soffocante patina del pensiero unico e del politicamente corretto, che vorrebbe spazzar via differenze e particolarità, orrori e indecenze. Libro aperto sul futuro e geniale rielaborazione della letteratura del passato, “Don Chisciotte” è il “Pulp Fiction” del suo tempo, è un testo inquieto e ribollente, satirico e intelligentissimo, studiato e debordante. Una lettura da fare, almeno una volta, nella vita.

(Recensione scritta ascoltando i Pink Floyd, “Shine On You, Crazy Diamond”)
PREGI:
sarabanda incredibile di avventure e, soprattutto, disavventure, è un libro di intelligenza diabolica e di rara sensibilità, che gioca consapevolmente coi generi e con le aspettative del lettore, soddisfacendole in alcuni casi e disattendendole in altri, rinnovandosi sempre e lasciando una sensazione di meraviglia e di stupore per la modernità dei concetti e delle idee
DIFETTI:
se il primo volume è folgorante e si fatica a smettere di leggere, il secondo è oggettivamente un po’ ripetitivo, per quanto impreziosito dall’idea di fondo metaletteraria e dalla capacità dell’Autore di far proliferare vicende e personaggi in un caleidoscopio narrativo ribollente e mai banale
CITAZIONE:
“Le favole immaginarie devono sposarsi con l’intelligenza di quelli che le leggono, e devono essere scritte in maniera che, rendendo accettabili le cose impossibili, appianando le sproporzioni, sospendendo gli animi, procurino meraviglia, tengano sospesi, rallegrino, e distraggano in maniera che meraviglia e allegria procedano di pari passo.” (pagg. 533-534)
GIUDIZIO SINTETICO: ****
LEGENDA RECENSIONI
Sia per i libri che per i film, adotto nel giudizio sintetico il sistema Mereghetti, che va da 0 a 4 stelline: a 0, ovviamente, i giudizi più negativi, a 4 quelli più positivi, con tutti i possibili gradi intermedi…