# 263 – Roberto Bolaño – 2666 (Adelphi, 2007, pagg. 963)
Saga composta da cinque romanzi raccolti in un unico volume. L’ordine di lettura non è vincolato, ogni lettore – secondo precise indicazioni lasciate dall’Autore – può scegliere da quale romanzo iniziare e quale sequenza di lettura seguire. Io ho accettato la sequenza scelta dall’editore e ho iniziato con “La parte dei critici”, in cui vengono raccontati i rapporti tra quattro critici letterari (il francese Jean-Claude Pelletier, lo spagnolo Manuel Espinoza, l’inglese Liz Norton e l’italiano Piero Morini) tutti ossessionati dalla figura del misterioso scrittore tedesco Benno von Arcimboldi, di cui conoscono l’opera a menadito ma che non hanno mai incontrato personalmente, poiché Arcimboldi si è sempre negato al pubblico: chi si cela dietro quel palese pseudonimo? Ne “La parte di Amalfitano”, tre dei quattro critici (Pelletier, Espinoza e la Norton) si recano a Santa Teresa, fittizia città messicana ispirata alla pericolosissima Ciudad Juarez, dove è stata segnalata da una fonte giudicata attendibile la presenza di Arcimboldi, che ormai dovrebbe essere molto anziano. Lo scrittore sta forse preparando un libro ambientato a Santa Teresa? E come rintracciarlo? Ad aiutare i tre critici, un professore di filosofia, Oscar Amalfitano, a sua volta conoscitore di Arcimboldi, che parlerà ai suoi colleghi della misteriosa catena di delitti – le cui vittime sono tutte donne – che si sta dipanando da anni a Santa Teresa. Nel terzo romanzo, “La parte di Fate”, facciamo la conoscenza del giornalista newyorchese di colore Oscar Fate, che deve recarsi a Santa Teresa per coprire la cronaca di un incontro di boxe, in sostituzione di un collega recentemente scomparso. Reduce dal lutto per la morte della madre, Fate coglie questo inatteso viaggio come un’opportunità di distrazione, ma a Santa Teresa conosce personaggi strani e si innamora della figlia del professor Amalfitano, la bellissima Rosa. A sua volta, Fate viene a sapere della catena di delitti che interessa la città e, assieme alla giornalista femminista (ma spaventata) Guadalupe Roncal accetta di recarsi in carcere a incontrare uno dei presunti assassini. Il romanzo termina proprio quando il carcerato, un colosso albino, si accomoda in parlatorio davanti ai due giornalisti. Il quarto libro, “La parte dei delitti”, è incentrato sull’impressionante sequela di omicidi di donne che avvengono a Santa Teresa e nei dintorni, e dei quali la polizia non riesce a venire a capo, fino a quando i sospetti non sembrano convergere sull’allampanato e inquietante proprietario (di origine tedesca) di un negozio di elettronica. Infine, nel quinto e ultimo romanzo, “La parte di Arcimboldi”, ripercorriamo praticamente l’intera vita del misterioso Benno von Arcimboldi e scopriamo attraverso quali esperienze e vicissitudini è diventato lo scrittore di enorme successo in odor di premio Nobel studiato appassionatamente da Pelletier, Espinoza, Liz Norton e Piero Morini e scopriamo altresì per quale ragione ha deciso di recarsi a Santa Teresa, in Messico.
È impossibile, come potrete immaginare, dare conto di tutte le sfumature, i personaggi e le sottotrame di un’opera colossale come “2666”, attraversata da troppi temi e da troppe ossessioni (anche molto personali) dell’Autore per essere efficacemente riassunta. Occorre accontentarsi di dare un’idea di quale sia la magmatica e multiforme materia di questi cinque romanzi che costituiscono un corpus unico e – sorprendentemente – piuttosto coerente. Se infatti l’episodio di Oscar Fate è quello che più marcatamente si distanzia dai centri tematici più forti dell’opera, va detto che gli altri romanzi sono piuttosto ben intrecciati e, pur non spiegando nulla e mantenendosi su uno stile volutamente ellittico ed enigmatico, per non dire bizzarro, riescono a costituirsi come le diverse parti (o i diversi “punti di vista”) di un’unica vicenda, incentrata sul misterioso scrittore Benno von Arcimboldi.
Tanto che, a tratti, viene il sospetto di essere proprio all’interno di un romanzo di Arcimboldi, magari il più caleidoscopico e meta-letterario; ma Bolaño, fortunatamente, è troppo bravo per accontentarsi di un simile “colpo di scena”, e punta più in alto, punta a costruire una narrazione fluviale e auto-proliferante, in cui gli episodi – un po’ come nel celeberrimo “Manoscritto trovato a Saragozza” di Jan Potocki – si innestano uno nell’altro, uno sull’altro, uno dopo l’altro, fino a perdere lo status di “episodi” divenendo, misteriosamente, flusso narrativo, a prescindere che si parli di un sacrilego violatore di chiese che urina sui pavimenti e distrugge gli arredi sacri o di un ebreo russo che, durante la Seconda Guerra Mondiale, deve affrontare l’occupazione tedesca o, ancora, della laconica storia d’amore tra un giovane e rude poliziotto messicano e l’attempata e raffinata direttrice di un manicomio, o di un generale rumeno ucciso dalle sue stesse truppe, ammutinatesi…
Insomma, c’è tanta, troppa roba dentro questo smisurato libro, ma non si tratta necessariamente di un difetto, perché l’approccio stralunato ma concreto di Bolaño alla narrativa risulta stranamente, per lunghi tratti, efficace, mostrando la corda solo laddove l’episodio diviene realmente “romanzo nel romanzo” e assume dimensioni e contorni tanto nitidi e importanti da “svegliare” il lettore dal suo “sogno guidato” – perché in fondo “2666” è questo: un lungo sogno che alterna riso e angoscia, dubbio e stupore, quiete e tensione, un sogno diretto e orchestrato da un Autore tanto bravo a giocare sulle sue stesse bizzarrie e sulla ricerca di un’originalità a tratti fin troppo ostentata quanto incapace di fornire soluzioni e punti d’approdo. D’altronde, questa bizzarria di fondo è la principale cifra stilistica di Roberto Bolaño, che gli ha permesso di ottenere un tardivo ma meritato successo planetario.
E va ammesso che c’è un che di ipnotico e di accattivante in questa serie di cinque romanzi che il suo Autore avrebbe voluto pubblicati separatamente e che invece Adelphi ha deciso di riunire in un unico volume sotto un titolo numerale e misterioso (a cosa allude? Forse alla natura “doppia” e “demoniaca” dell’intero racconto, ribaltabile come un’opera di Giuseppe Arcimboldo, il celebre pittore del Cinquecento che dipingeva affascinanti trompe-l’oeil e ritratti composti da elementi vegetali? Quadri che, in alcuni casi, si potevano ribaltare, permettendo di parlare di nature morte reversibili: allo stesso modo, la saga di Bolaño può essere ribaltata e girata in ogni modo, presa da ogni punto, eppure resta valida, l’ossatura della trama non cambia e prescinde dall’ordine con cui vengono scoperti i vari elementi che la compongono). Essendo peraltro innegabile l’ispirazione al pittore milanese per il nom de plume del misterioso scrittore tedesco Benno von Arcimboldi (ispirazione che viene apertamente dichiarata in un passaggio dell’ultimo romanzo), direi che perlomeno negli intenti di base l’idea di Bolaño è molto chiara: costruire un “rompicapo letterario”, un’opera nella quale ogni parte sembra contenere il tutto, e il tutto è riecheggiato, in qualche maniera, in ogni singola parte.
Non si contano, infatti, le mise en abyme e i rimandi da un punto all’altro della saga, le allusioni e i riferimenti, a volte palesi e sbandierati, altre volte appena accennati, flebili echi che sembrano sovrapporre per un istante due personaggi, due situazioni, due luoghi divisi magari da migliaia di chilometri o due momenti lontani decine di anni.
Miracolosamente, tutto finisce per reggere, in questa “Torre di Pisa” letteraria che sembra sempre sul punto di crollare, rivelando la fragilità delle proprie stesse fondamenta, ma che poi riesce sempre a rilanciarsi, e a indurre il lettore a continuare a leggere, avviluppandolo in un gioco di rimandi e accenni certamente in sé un po’ sterile ma non sgradevole, anche perché di Bolaño si possono dire tante cose, ma non che non sapesse scrivere. Il suo stile alterna durezze e tratti spigolosi, quasi da romanzo hard boiled, a momenti lirici e delicati, inattesi e bellissimi (un esempio su tutti, l’accenno di storia d’amore tra Espinoza e la venditrice di tappeti ne “La parte dei critici”: ma ce ne sarebbero molti altri), e ha la caratteristica di entrare sottopelle al lettore quasi senza che egli se ne accorga, col risultato che ci si ritrova “prigionieri” del racconto senza averlo voluto e, anche se in molti punti si abbassa il libro chiedendosi se andare avanti o se mollarlo, alla fine non lo si molla perché si ha la sensazione che ad ogni pagina possa succedere qualcosa di straordinario, che in ogni capoverso possa celarsi il segreto di Arcimboldi, la chiave di lettura per interpretare l’intera opera, lo svelamento di un mistero sempre suggerito ma mai risolto, anche perché se l’Autore alzasse il velo sul mistero di fondo, il libro collasserebbe miseramente.
Sempre sul filo del rasoio, in una strettissima linea che fa da spartiacque tra supponenza e inconcludenza, la scrittura di Roberto Bolaño è come un equilibrista da circo che cammina sulla corda tesa, con il bilanciere in mano: in ogni momento dà l’impressione di stare per cadere, vuoi dalla parte della supponenza, vuoi da quella dell’inconcludenza, ma poi non cade e finisce per affascinare il lettore, ammesso che sia disposto, ovviamente, a sobbarcarsi le quasi mille pagine di questo mastodonte che ruota attorno a un centro di gravità misterioso e sfuggente, lo scrittore Arcimboldi, simbolo – forse – di tutte le storie che meriterebbero d’essere raccontate, ma che non è fisicamente possibile raccontare. Tentato (un po’ alla Musil) dal tutto e a continuo rischio di precipitare nel niente, Bolaño riesce nell’impresa di catturare un nutrito pubblico di lettori e di far apprezzare una letteratura che sembra non avere più bisogno di un’idea classica di trama, persa com’è in mille rivoli narrativi che non necessariamente debbono riunirsi e confluire in un unicum sensato e giustificato.
Sul grado di soddisfazione che una simile lettura possa dare, non si riesce a offrire un giudizio univoco e definitivo: tra l’esaltazione quasi settaria di chi considera Bolaño il più grande genio letterario degli ultimi trent’anni e l’esecrazione fin eccessiva di chi lo considera, invece, il più grande bluff ordito dalle case editrici pur di vendere copie, noi ci attesteremo, nel giudizio, su una saggia via mediana. È un brutto libro “2666”? No, si legge, a tratti, anche con grande piacere. Ma cosa rimanga, nel profondo, di queste 963 pagine, rispetto a ciò che lasciano nel lettore cento sole pagine di un Robert Musil, o cinquanta appena di un Marcel Proust, è un’altra faccenda, e volentieri rimandiamo il giudizio a ogni singolo lettore che voglia farsene carico.
(Recensione scritta ascoltando Maurice Ravel, “Boléro”)
PREGI:
una scrittura sapida e vischiosa come una ragnatela, e una quantità di spunti e di sottotrame da riempire – se fossero tutti sviluppati – un’intera biblioteca. Per quanto riguarda i singoli romanzi, il migliore è probabilmente “La parte dei critici”, che brilla per originalità tanto dei personaggi quanto delle situazioni, seguito a un’incollatura dalla “Parte di Amalfitano”, dominato dalla bella figura dello strampalato professore spagnolo; il peggiore è senz’ombra di dubbio “La parte di Fate”, incerto e divagatorio, pieno di fili penzolanti che non si raccordano a niente (non a caso, Adelphi l’ha posto in mezzo al volume, a mo’ di lungo, e superfluo, raccordo). “La parte di Arcimboldi” è fondamentale per capire perlomeno qualcosa della strana figura di questo immaginario scrittore tedesco, ed è a suo modo un romanzo storico solido e ben scritto. Del tutto ingiudicabile “La parte dei delitti”: una sequela, per trecento e più pagine, di donne ammazzate (o meglio, rinvenute cadaveri) da non si sa chi, retto tutto sulla caleidoscopica abilità dell’Autore di far sì che ogni ritrovamento sia un micro-racconto, un mini-romanzo nel romanzo, e che le vicissitudini di vittime e inquirenti si intreccino in un gomitolo osceno ma affascinante di colpe e dubbi, di impotenza e delirio. Curiosità: ne “La parte dei delitti” fa capolino quell’Olegario Cura, detto “Lalo”, protagonista del più bel racconto (“Prefigurazione di Lalo Cura”) della raccolta intitolata “Puttane assassine”.
DIFETTI:
se i primi due romanzi (perlomeno nell’ordine in cui lo ho letti io), cioè “La parte dei critici” e “La parte di Amalfitano”, si leggono con piacere e interesse, il terzo, “La parte di Fate”, delude oggettivamente non poco, e a partire dal quarto, “La parte dei delitti”, si ha l’impressione di leggere senza più sapere bene neanche perché si legge, che storia si sta leggendo, cosa si vorrebbe scoprire o sapere. Curiosamente, si va avanti come per inerzia, prigionieri di una ragnatela che il ragno sta ancora tessendoci attorno e noi, lungi dal volercene liberare, vorremmo invece conoscere il ragno, scoprire perché ci ha imprigionati, andare al cuore della ragnatela e dell’enigma stesso! In questo, c’è tutto il bello e il brutto della scrittura di Roberto Bolaño che, per dirlo con la locuzione più semplice (e dunque inevitabilmente semplicistica) promette tanto e non mantiene quasi nulla!
CITAZIONE:
“Il mondo è tutto un caso. Secondo un mio amico sbagliavo a pensarla così. Il mio amico diceva che per chi viaggia in treno il mondo non è un caso, anche se il treno sta attraversando territori sconosciuti al viaggiatore […]. Non è un caso neppure per chi si alza alle sei del mattino morto di sonno e va al lavoro. Per chi non ha altra scelta che alzarsi e aggiungere altro dolore al dolore che ha già accumulato. Il dolore si accumula, diceva il mio amico, è un dato di fatto, e quanto più grande è il dolore, minore è il caso.” (pag. 107 – Dal romanzo “La parte dei critici”)
GIUDIZIO SINTETICO: **½
LEGENDA RECENSIONI
Sia per i libri che per i film, adotto nel giudizio sintetico il sistema Mereghetti, che va da 0 a 4 stelline: a 0, ovviamente, i giudizi più negativi, a 4 quelli più positivi, con tutti i possibili gradi intermedi…