6.41 – Jean-Philippe Blondel

# 268 – Jean-Philippe Blondel – 6.41 (Einaudi, 2014, pagg. 131)

Dopo un weekend a casa dei genitori nella provinciale Troyes, la donna in carriera Cécile Duffaut, proprietaria di una catena di negozi di cosmetici e madre di una figlia diciassettenne, prende il treno delle 6.41 di lunedì, per rientrare a Parigi e iniziare una nuova settimana di lavoro. Non può sapere che sul sedile accanto al suo prenderà posto, proprio su quel treno da pendolari delle 6.41, il suo antico amore Philippe Leduc, con il quale ventisette anni prima aveva fatto un fallimentare viaggio a Londra, conclusosi nel peggiore dei modi. L’avrà riconosciuta Philippe, nonostante gli anni passati dall’ultima volta che si sono visti? E come mai lei l’ha riconosciuto al primo colpo e senza possibilità d’errore, nonostante l’uomo si sia appesantito e abbia tutti i segni di una vita devastante, con tanto di divorzio e amicizie perdute? E cosa ci fa Philippe Leduc sul treno delle 6.41 per Parigi? Intrecciando gli Io narranti dei due personaggi, che riflettono ciascuno sulla congerie di ricordi che il tacito e fortuito incontro ha prodotto, l’Autore crea un reticolo di frustrazioni e rimpianti, di disillusioni e insicurezze, disegnando il panorama di una mezz’età – tanto di Cécile quanto di Philippe – ben diversa da quella che i due si aspettavano quand’erano ragazzi. E cosa succederà all’arrivo alla Gare de L’Est di Parigi? Uno dei due si deciderà a rompere il ghiaccio e riaprire un rapporto lontano ventisette anni ma forse ancora irrisolto?     

Se la valutazione di questo romanzo di Jean-Philippe Blondel, poco conosciuto Autore francese classe 1964, si basasse esclusivamente sulla trama, il parere sarebbe unico e lapidario: solita storia di rimpianto generazionale, solita rimasticatura di sogni giovanili infranti e di matrimoni sbagliati e di figli ingrati e di malattie incombenti. Insomma, solita borghesissima parabola autocommiseratoria sulla “mezza età”, quel blocco di anni in cui la vita sembra accelerare e sfuggire di mano, e in cui non si è più giovani ma non si è ancora vecchi, in cui si hanno ancora i genitori ma sono anziani e malati e vederli ci fa soffrire più che farci piacere, e in cui, in definitiva, tutto ciò che di bello e piacevole la nostra esistenza sembrava avere sino a pochi anni prima, ora si direbbe trasformato in un grumo di risentimento e attesa dell’inevitabile (morte dei genitori, malattie nostre o dei nostri cari, problemi lavorativi, e via almanaccando).

Ora: tutti questi elementi, inutile nasconderlo, ci sono nelle centotrentuno pagine di questo esile romanzetto che sembra non voler sfuggire neppure a uno dei tanti cliché della letteratura di questo tipo, che sembra nata per divorare sé stessa, un po’ come una malattia autoimmune. A salvare la situazione, però, intervengono alcuni fattori che, pur senza trasformare il libro in un capolavoro epocale, perlomeno ne giustificano tanto l’impianto narrativo quanto il tono di fondo. Lettura indubbiamente sconsigliabile se si vuol restare allegri, “6.41” è tuttavia un libro abbastanza godibile perché l’Autore non ha troppi grilli per la testa, scrive semplice e diretto, fa pensare, ragionare e ricordare i suoi protagonisti con semplicità e immediatezza (favorendo l’identificazione col lettore) ed è capace di costruire una piccola suspense attorno a ciò che sarebbe accaduto durante il viaggio a Londra dei due protagonisti, ventisette anni prima.

Nulla di eccezionale, si dirà, però è sufficiente a rendere la lettura perlomeno interessante, e non è un merito da poco. Troppi scrittori si ritengono così bravi e così intelligenti da dimenticarsi le poche, semplici regole che invece Blondel dimostra non solo di conoscere, ma di saper applicare quasi alla lettera. Così, “6.41” non è certo un libro che cambia il mondo o la letteratura, però è una lettura che – nell’ambito del suo genere di riferimento, il libro generazionale e un po’ autocommiseratorio, appunto – non stona e non sfigura, proponendo al lettore un viaggio in treno che diventa scavo nel ricordo di due personaggi che fingono di non essersi riconosciuti, ma che, in realtà, spiano ansiosamente l’uno le mosse dell’altra, in attesa di capire se e a che cosa possa portare il loro inaspettato e del tutto casuale reincontro.

Edvard_Munch_-_The_dance_of_life_(1899-1900)
Edvard Munch, La danza della vita
(Olio su tela, 1899-1900)

E se il finale (unico blocco in terza persona del libro) non può che essere aperto e un po’ deludente nella sua fatale sospensione, il resto del libro è oggettivamente leggibile e, nei limiti delle tematiche affrontate, anche piacevole e interessante, spinto avanti dalla corrente elettrica del treno che sembra entrare direttamente nelle vene dei due protagonisti, inducendo ricordi e valutazioni, riflessioni e pensieri che, seppur non originalissimi, non hanno di contro nemmeno la supponenza e la banalità di altri testi – assai più celebrati – tutti persi nelle loro stesse macerazioni intellettuali e filosofiche (o presunte tali).                   

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(Recensione scritta ascoltando Donovan, “Hurdy Gurdy Man”)

PREGI:
nitido e piuttosto ben scritto, è un libro consapevole dei propri limiti intrinseci che non cerca di strafare né tenta di imporsi come testo abissale o epocale. Onesto romanzo di rimpianto generazionale, si legge con una certa curiosità e non si resta delusi

DIFETTI:
il finale tronco e irrisolto, piuttosto inevitabile del resto, lascia più d’un rimpianto (vero, stavolta, non narrativo!). Peccato: uno sforzo in più per chiuderlo in maniera meno prevedibile ne avrebbe potuto fare un gioiellino. Nota di demerito per gli editor di Einaudi: in italiano, si dice “alla” e non “nella periferia”! Roba da scuola media, ragazzi…  

CITAZIONE:
“Ogni tanto, a vent’anni, non si è in grado di affrontare le situazioni come si deve. Ogni tanto, a quarantasette anni, non ci si comporta molto meglio.” (pag. 103)

GIUDIZIO SINTETICO: **½

LEGENDA RECENSIONI
Sia per i libri che per i film, adotto nel giudizio sintetico il sistema Mereghetti, che va da 0 a 4 stelline: a 0, ovviamente, i giudizi più negativi, a 4 quelli più positivi, con tutti i possibili gradi intermedi…

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NON GIUDICABILE con i sistemi ìclassiciî di voto
PESSIMO
QUASI PESSIMO
BRUTTO
BRUTTINO
 
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***1/2
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ACCETTABILE
DISCRETO
BUONO
MOLTO BUONO
CAPOLAVORO