# 337 – Koushun Takami – BATTLE ROYALE (Einaudi, 2009, ediz. orig. 1999, pagg. 663)
In un Paese immaginario che somiglia decisamente al Giappone, anche se si chiama Repubblica della Grande Asia dell’Est, il governo totalitario organizza ogni anno un terribile gioco: gli alunni di una classe del terzo anno delle scuole medie, estratta a caso, verranno portati su un’isola deserta e dovranno uccidersi a vicenda fino a quando non resterà viva un’unica persona. Il vincitore (maschio o femmina che sia) sarà l’unico a non morire, in questa terrificante gita scolastica. Il “Programma” (così il governo chiama questa attività) del 1997 vede protagonista la classe III B della scuola media di Shiroiwa: i quarantadue ragazzi, metà maschi e metà femmine, vengono narcotizzati mentre, sul pullman, accompagnati da un loro professore, credono di star facendo una normalissima gita, e si risvegliano in un’aula scolastica, arringati dal malvagio Kinpatsu Sakamochi, che detta le regole del “gioco” e uccide, giusto per far capire chi comanda, i primi due alunni. I quaranta restanti riceveranno una sacca con acqua, cibo, una piantina dell’isola e un’arma, usciranno a uno a uno dalla scuola e dovranno iniziare a uccidersi, pena l’esplosione radiocomandata di un collare che è stato messo loro mentre dormivano. La classe farà fronte comune e proverà ad opporsi a regole tanto terribili oppure i ragazzi inizieranno a non fidarsi l’uno dell’altro e staranno al gioco del governo? E perché un governo dovrebbe voler sacrificare ogni anno quarantadue giovani vite?
Questa recensione, mi perdonerete, sarà un po’ lunga. Da una parte perché oggettivamente c’è molto da dire di un libro come “Battle Royale”, scritto nel 1996 ma uscito solo nel 1999 (infatti, l’anno in cui si svolge la storia è il 1997, e non è stato aggiornato nell’edizione); dall’altra parte, perché confesso di aver esitato a lungo prima di affrontare la lettura. Più volte, in libreria, il romanzo di Takami mi era capitato in mano, e avevo sempre glissato: troppo lungo, troppo ripetitivo, troppo giapponese, troppo assurdo.
Le motivazioni che mi sono dato per il rifiuto di leggerlo sono le più varie. E tutte sbagliate. “Battle Royale” è un grande libro, non so se definirlo capolavoro, perché è un libro, tutto sommato, atipico e difficilissimo da incasellare, e anche da giudicare. Però è indubbiamente una lettura che, fatta al momento giusto, non lascia indifferenti. Vediamo se riesco a spiegare il perché, visto che lo stile di Takami non è particolarmente brillante e la trama, al di là dell’originale idea di fondo, è oggettivamente molto ripetitiva: per seicento e passa pagine, quaranta ragazzi tra i quattordici e i sedici anni si massacrano con le armi più disparate, oppure scelgono di suicidarsi o finiscono in qualche zona vietata (eh già, c’è anche questo inghippo nel micidiale meccanismo messo a punto dal governo) e il loro collare salta in aria, uccidendoli.
E allora, vi starete chiedendo, come fai a dire che è un grande libro, se ha tutti questi difetti? Anzitutto, sgombriamo il campo da un equivoco di fondo: i grandi libri possono ben avere dei difetti; anzi, a volte sono proprio i difetti a rendere ancor più grande un libro. È proprio il caso di “Battle Royale”, che si traveste da manga o da videogame (in fondo siamo alla fine degli anni Novanta) ma è, in realtà, una sorta di epopea nera (con rimandi colti, se si pensa ai sacrifici di ragazzi di cui è infarcita la mitologia greca, a partire da Teseo e il Minotauro), una fiaba terribile sull’adolescenza e sul totalitarismo, sul sacrificio di sé e sulla speranza nel futuro.
Ed ecco che l’aspetto action e tutto sommato fumettistico del libro diventa immediatamente un pregio, e non un difetto, perché un testo incentrato su questi temi ci mette pochissimo a diventare retorico e indigeribile, soprattutto laddove l’Autore tentasse di imitare capolavori come “1984”. Takami, invece, disinnesca subito questo rischio proponendo un libro, fondamentalmente, di genere, quasi la sceneggiatura per un videogioco, appunto, uno di quegli “sparatutto” che andavano tanto di moda negli anni Novanta.
Al contempo, però, non rinuncia a neanche un grammo di quella “neritudine” che la trama promette, e costruisce, capitolo dopo capitolo, un’allucinante distopia adolescenziale, un incubo a occhi aperti che dice qualcosa di non banale tanto sulla crudeltà (di adulti e ragazzi, indifferentemente) quanto sull’amore, tanto su quanto diamo per scontati il futuro e la vita quanto sull’irrompere dell’angoscia e dello spaesamento nelle nostre esistenze. Certo, l’ambientazione e la filosofia di fondo sono squisitamente nipponiche, e orientarsi in mezzo a quaranta e passa nomi di alunni giapponesi non è facile; ma in realtà si tratta di un falso problema, perchè poco importa che il lettore ricordi a menadito la composizione della classe III B. L’Autore è bravo a scolpire le figure di sette o otto protagonisti, per quanto sia sbagliato parlare di protagonisti propriamente detti in un romanzo palesemente corale, e su queste figure si concentra un po’ di più, utilizzandole come fil rouge e rendendo, se possibile, anche più agghiaccianti le uscite di scena di altri personaggi, che in pratica “vivono” solo nel momento in cui vengono uccisi.
Se Shuya Nanahara e Noriko Nakagawa, che si fidano l’uno dell’altra e uniscono le loro forze per provare a scappare da una situazione disperata, rappresentano le anime positive di una gioventù che non accetta la barbarie come istituzione, il tremendo “terminator” Kazuo Kiriyama e la spietata Mitsuko Souma sono, di rimando, le “anime nere”, coloro che accettano le regole del gioco e lo praticano con fanatismo, massacrando chiunque capiti loro a tiro. Nel mezzo, Takami è bravo a tratteggiare, a volte anche con pochissimi tocchi, una quantità di personaggi dei quali, se in effetti è un po’ difficile per il lettore occidentale ricordare nomi e cognomi, arrivano però chiaramente i tratti essenziali, e credetemi, il libro offre scene da groppo in gola, soprattutto quando l’Autore si gioca la carta del flashback e ci racconta qualcosa sul background dei personaggi, sulla loro storia familiare o sulla carriera scolastica.
Tutto si ribalta in “Battle Royale”: le interrogazioni e lo studio, gli scherzi di una classe di amici, lasciano il posto al sospetto e all’aggressione, al terrore e al fondo nero dell’anima, quel fondo che forse ci caratterizza tutti, che proprio la scuola avrebbe l’ambizione di stemperare, tramite la cultura e la condivisione, e che invece il totalitarismo immaginato da Koushun Takami tende a esasperare ed esaltare, come strumento di controllo delle masse.
A questo proposito, si potrebbe obiettare che la motivazione di fondo di questa atroce distopia sia un po’ labile: perché un governo totalitario dovrebbe voler macellare dei ragazzi, invece di avviarli alle armi, come ogni buona dittatura che si rispetti? Vi confesso che questa è stata anche per me, durante la lettura, l’obiezione più resistente, complice l’Autore, che offre un abbozzo di spiegazione solo a pagina 643 (vedi citazione).
Ma, ancora una volta, nonostante questa debolezza di motivazione, il libro, misteriosamente, regge e convince, e quando si deve chiuderlo perché si è arrivati a destinazione e occorre iniziare la giornata di lavoro, lo si fa con la curiosità di scoprire, alla sera, quando si potrà ricominciare a leggere, che fine faranno Hiroki Sugimura, Kyoichi Motobuchi o Yukie Utsumi, che si sono lasciati in pessime acque; e questo, checché se ne dica, è un merito innegabile di un Autore che non ha grilli per la testa e che sa benissimo di non stare scrivendo la nuova “Recherche”, e che proprio per questo porta a conclusione un libro che si regge su un misterioso e magico equilibrio, che impedisce di smettere di leggerlo, anche nei capitoli meno interessanti, anche con le durezze di stile e le bizzarrie contenutistiche (alcune cose, oggettivamente, a partire dai nomi dei personaggi, sono molto giapponesi e afferiscono a una cultura con la quale non è detto che il lettore o la lettrice occidentali familiarizzino più di tanto).
E se l’avvio, pur “forte”, semina più dubbi che altro, e per tutta la durata della lettura è quasi inevitabile il sospetto che tutto finisca in malora, gettato via con un finale non all’altezza, anche su questo posso tranquillizzarvi: la chiusa regge e non mancano i colpi di scena, a suggello di un’opera che non sarà il nuovo “1984” (e che comunque, in ogni caso, è più vicino al “Signore delle mosche”) ma, se lasciata agire, se affrontata senza preconcetti, non lascerà mai indifferenti.
(Recensione scritta ascoltando Jude Christodal, “Madonna”)
PREGI:
incredibile per come riesce a mantenere l’interesse del lettore nonostante la lunga e ripetitiva sequela di uccisioni che racconta, il libro ha la sua cifra stilistica di base nella capacità dell’Autore di accostare – con effetto terribilmente straniante – argomenti adolescenziali e distopia totalitaria: i ragazzi, spesso, si soffermano a parlare tra loro di “cotte” e di interrogazioni, e rievocano aneddoti scolastici che, immersi nel tessuto sanguinoso e violento del “Programma”, appaiono ancora più disperatamente fragili ed effimeri. Capolavori di malinconia e disperazione i capitoli 12 e 58, quasi dei micro-racconti interni al racconto, leggibili, per assurdo, anche separatamente
DIFETTI:
il periodare di Takami, come quello di molti autori giapponesi, è a tratti spezzato e attraversato da una sorta di incomprensibile ingenuità, che però, dopotutto, in questo libro gioca a favore, contribuendo a creare l’atmosfera allucinante di questa sanguinosa gita scolastica. Non sempre giustificabile, però, il compiacimento nelle scene di violenza
CITAZIONE:
“Allora ti spiego perché il Programma è indispensabile in questo paese. Vedi, ovviamente è una bugia che serva come esperimento, no? Sai perché trasmettono sempre un servizio sui vincitori al telegiornale locale? Quando tutti guardano questi ragazzi sono dispiaciuti per loro. Pensano che in realtà non volevano partecipare a questo gioco. Però poi pensano che in fondo non potevano fare altro che combattere. Cioè, tutti alla fine pensano che non ci sia nessuno di cui si possono fidare. E quindi che è una cosa inutile organizzare un colpo di Stato, no? Così la Repubblica della Grande Asia dell’Est e i suoi ideali continueranno a esistere per sempre.” (pag. 643)
GIUDIZIO SINTETICO: ***½
LEGENDA RECENSIONI
Sia per i libri che per i film, adotto nel giudizio sintetico il sistema Mereghetti, che va da 0 a 4 stelline: a 0, ovviamente, i giudizi più negativi, a 4 quelli più positivi, con tutti i possibili gradi intermedi…