LECTIO BREVIS / 171

Testi, pre-testi, divagazioni e spunti minimi intorno a libri letti, riletti, sfogliati

A cura di Roberto Mandile

PUNTATA 171
CHE FINE HA FATTO?
Scomparse misteriose e nostalgie per qualcosa di perduto

Giuseppe Pontiggia – LA GRANDE SERA (1989)

Di cosa parla: Un consulente finanziario scompare nel nulla, una sera di giugno, in una grande città italiana. Che fine ha fatto? L’uomo non è andato nel suo studio e, a quanto pare, non ha avvisato nessuno. Ad accorgersene per prima è la sua amante, che aveva un appuntamento con lui quello stesso giorno. La donna coinvolge nelle ricerche anche Mario, il fratello dello scomparso. È successa una disgrazia? O magari è stato rapito? Oppure, come suggerisce Mario, si è semplicemente preso un giorno di vacanza? Il fatto è appena accaduto, d’altronde, e tutte le ipotesi sono valide. E poi, è davvero il caso di preoccuparsi?

Commento: «Lei ha usato una parola chiave, scomparso. E scomparsa è sinonimo di morte. Tutto questo non è casuale, non le pare?». Così il dottor Colucci, analista, commenta la notizia della scomparsa al centro del romanzo: gliel’ha appena riferita l’amante dell’uomo, nonché sua paziente. Il dottor Colucci è solo uno dei tanti personaggi di cui facciamo la conoscenza, nel corso delle ricerche che la donna e Mario conducono nel tentativo di scoprire le ragioni del mistero. È proprio in questa dilatazione progressiva del raggio di interesse che risiede il motore narrativo del libro. L’indagine, più che focalizzarsi sulla scomparsa, prende presto le forme di una serie di divagazioni, simili ai cerchi concentrici che si allontanano dal sasso caduto nell’acque. A Pontiggia, cioè, interessa non tanto la vicenda in sé quanto il quadro di varia umanità che si accalca in folla intorno all’episodio centrale. E così il romanzo acquista via via spessore nel ritratto della borghesia italiana (e milanese, in specie), tutta impegnata a coltivare la propria vanità, incapace davvero di partecipare al dramma (vero o presunto) della scomparsa di un uomo e interessata semmai a prendere spunto dall’avvenimento per valutare, come in uno specchio, la solidità del proprio io. La vena satirica del romanzo è lieve ma non per questo superficiale, corroborata da uno stile che, se talora cede ancora a una certa “aforisticità insistita” (è uno dei difetti confessati dallo stesso autore nella nota con cui giustifica il lavoro di revisione che lo ha portato a una seconda edizione, pubblicata nel 1995, nonostante il Premio Strega vinto all’uscita nel 1989), sceglie l’ironia come cifra espressiva (proprio il capitolo XVI sul dottor Colucci è esemplare in questo senso). Romanzo, probabilmente, imperfetto sul piano della trama, fin troppo sacrificata, ma raffinato come pochi nel tratteggiare una galleria di personaggi o, forse, di caratteri ben riusciti nella loro esemplarità.

GIUDIZIO: **½

Paul Halter – LA TOMBA SCOMPARSA (2013)

Di cosa parla: Per William Rigg il ricordo dei suoi cuginetti Sylvain e Lisette è indelebile. I due bambini sono misteriosamente scomparsi in un bosco della Bretagna una decina d’anni fa. Per saperne qualcosa, William si risolve persino a chiedere il consulto di una chiaroveggente cinese di cui è venuto a conoscere casualmente le doti proprio nella ricerca di persone scomparse. Nel corso di una seduta spiritica, la medium si mette in comunicazione con lo spirito di Lisette che le rivela di essere stata uccisa, insieme al fratello, nella cantina di una villa nel sud dell’Inghilterra e che lì sono stati murati e giacciono tuttora. Sulla base di alcuni indizi forniti dalla veggente e con l’aiuto della fidanzata Shirley, William rintraccia la casa, dove vive, con la sua famiglia, Doreen Day, un’anziana attrice un tempo popolarissima. Per capire quali misteri si nascondano nella dimora, Shirley decide di farsi assumere da Doreen come donna di servizio…

Commento: Dove sono finiti i cuginetti di William? È davvero possibile che le più funeste ipotesi, ventilate dalla medium cinese, siano realtà? È intorno a questi due inquietanti interrogativi che ruota la vicenda del romanzo, che Halter è bravissimo a mettere in moto sfruttando alcuni dei cliché più ricorrenti, a partire, naturalmente, da quello della casa maledetta, con tanto di cantina-sepolcro e di stanza chiusa a chiave a cui la padrona proibisce categoricamente l’accesso. Ma, naturalmente, anche l’espediente della seduta spiritica è tra i più sfruttati nella letteratura gialla. Eppure, l’autore – grande ammiratore di John Dickson Carr – si rivela del tutto a suo agio nella costruzione di un’atmosfera gotica, nel disseminare qua e là indizi e soprattutto nel dipingere il quadretto di una famiglia dominata dalla figura della vecchia attrice sul viale del tramonto, con il suo marito succube e adorante e i quattro figli (tra naturali e adottivi), due dei quali (le femmine, chissà perché) affette da disabilità (forse un po’ troppo passeggere). Attraverso il punto di vista di Shirley, infiltrata a fini investigativi, le cui incursioni notturne nella cantina sono l’ennesima riproposizione di un altro luogo comune del thriller, Halter riesce a coinvolgere il lettore, sacrificando magari qualcosa in termini di originalità ma puntando tutto sul fatto che gli incubi sono da sempre gli stessi. Nel finale, la tensione fatalmente si allenta e la soluzione, pienamente razionale e capace di sciogliere le apparenti incongruenze, non è probabilmente il punto di forza del libro (peraltro a spiegare il tutto interviene, ma solo nell’epilogo, il dottor Twist, il più celebre investigatore dilettante dei romanzi di Halter, mentre l’indagine ufficiale è svolta dall’ispettore Briggs di Scotland Yard). Perché, in fondo, il romanzo dimostra anche che le scomparse, nella letteratura gialla, sono fin troppo prevedibili. O no?

GIUDIZIO: **½

PRE-TESTI, DIVAGAZIONI
E SPUNTI MINIMI

I casi di scomparsa, come dimostra il caso di Paul Halter, sono un grande classico della letteratura gialla. Scomparsa di persone, che non si trovano più: o verranno ritrovate cadaveri o sotto c’è qualche trucco più o meno ingegnoso (Agatha Christie docet, ma a noi piace ricordare almeno due esempi notevoli: La donna fantasma di Cornell Woolrich e La signora scompare di Ethel Lina White). Talvolta pure scomparsa di cose, oggetti: se sono preziosi, probabilmente sono stati rubati (fa scuola La Pietra di Luna di Wilkie Collins); se in sé e per sé non lo sono, anche in questo caso c’è qualcosa che non torna (esemplare il racconto La lampada di Dio di Ellery Queen: scompare niente meno che una casa!). 

Ma ci sono poi scomparse che hanno a che fare con interrogativi ancor più misteriosi. Sono le scomparse che fanno i conti con la nostra stessa identità, con il senso del divenire, con il tempo che passa e inevitabilmente ci cancella, ci offusca, ci disorienta. Memori del celebre frammento di Eraclito secondo il quale “non si può discendere due volte nel medesimo fiume”, ecco che sono spesso i poeti a schiuderci le porte della scomparsa, a chiedersi – angosciati o malinconici, ironici o serissimi – “Che fine ha fatto?”. È la domanda, ad esempio, che nasce dal ricordo di Guido Gozzano della cocotte, sua vicina di casa quand’era bambino, la quale un giorno gli impresse un bacio “con le pupille di tristezza piene”. Ricordo suscitato dall’aver rivisto, a vent’anni di distanza, “il giardino, il giardinetto | contiguo, le palme del viale, | la cancellata rozza dalla quale | mi protese la mano ed il confetto…”:

Tra le gioie defunte e i disinganni,
dopo vent’anni, oggi si ravviva
il tuo sorriso… Dove sei cattiva
Signorina? Sei viva? Come inganni
(meglio per te non essere più viva!)
la discesa terribile degli anni?

Oimè! Da che non giova il tuo belletto
e il cosmetico già fa mala prova
l’ultimo amante disertò l’alcova…
Uno, sol uno: il piccolo folletto
che donasti d’un bacio e d’un confetto,
dopo vent’anni, oggi, ti ritrova

in sogno, e t’ama, in sogno, e dice: T’amo!
Da quel mattino dell’infanzia pura
forse ho amato te sola, o creatura!
Forse ho amato te sola! E ti richiamo!
Se leggi questi versi di richiamo
ritorna a chi t’aspetta, o creatura!

Vieni. Che importa se non sei più quella
che mi baciò quattrenne? Oggi t’agogno,
o vestita di tempo! Oggi ho bisogno
del tuo passato! Ti rifarò bella
come Carlotta, come Graziella,
come tutte le donne del mio sogno!

Se per Gozzano la cocotte evoca la nostalgia per le occasioni perdute (“Non amo che le rose | che non colsi. Non amo che le cose | che potevano essere e non sono | state…”), per Jorge Luis Borges la fonte di ispirazione sono quasi sempre i libri. E così, ad esempio, il ritorno a casa di Ulisse, il suo rimpadronirsi, dopo la strage dei Proci, del suo regno, della sua dimora e soprattutto della sua sposa non può non far sorgere un interrogativo a suo modo disturbante: ora che ha finalmente recuperato la tanto inseguita normalità della sua condizione di re e di sposo legittimo, che fine ha fatto l’Ulisse dei travagliati viaggi, delle tante menzogne che lo avevano portato al punto di negare la sua stessa identità?

La spada di ferro ha già compiuto
la dovuta opera di vendetta;
gli aspri dardi e la lancia
hanno già prodigato il sangue del perverso.

A dispetto di un dio e dei suoi mari
Ulisse è tornato al suo regno e alla sua regina,
a dispetto di un dio e dei grigi
venti e dello strepito di Ares.

Già nell’amore del letto condiviso
dorme la chiara regina sopra il petto
del suo re; ma dov’è quell’uomo

che nei giorni e notti dell’esilio
errava per il mondo come un cane
e diceva che Nessuno era il suo nome?

Testi citati
Guido Gozzano – da “COCOTTE”, in I colloqui” (1911)
Jorge Luis Borges – ODISSEA, LIBRO VENTITREESIMO, in “L’altro, lo stesso” – traduzione di Livio Bacchi Wilcock (1964)