Questo racconto si è classificato primo nel concorso A.S.S.I. 2008 (Associazione Scrittori Svizzera Italiana): un onore per un “non svizzero” come me! Il tema era la Montagna, da raccontare secondo la propria sensibilità. Ho scelto una storia evocativa e sospesa, quasi fiabesca…
IL «CANE DEI MONTI»
Una notte, molto tempo fa (mi trovavo sui monti del Kaibab Plateau, al confine tra Arizona e Nevada), incontrai un uomo che si scaldava alle fiamme di un fuoco da campo. Siccome avevo freddo e non mi ero ancora risolto a fermarmi per la notte, mi avvicinai. Senza nulla chiedermi, e senza neppur salutarmi, come se mi stesse aspettando, l’uomo mi porse la fiasca del whisky. Bevvi e lo ringraziai. Gli dissi il mio nome. Lui disse di chiamarsi Preston. Solo questo disse. Quando mi fui seduto, senza che gli avessi chiesto alcunché, Preston mi raccontò una storia:
«Ricordo benissimo» – disse – «il giorno che me ne andai. È strano, non è vero? Quel giorno, il giorno che lasciai Mountdogg, era una giornata limpida e fresca, chiara. La montagna, davanti a me, dall’altra parte della vallata, sembrava una immensa cascata congelata, come l’alito ghiacciato di una divinità. Brillava a scaglie sotto il Sole, tremolava, sembrava fatta di biglie rotolanti eppure stava immobile nella sua imponente massa. A guardarla troppo c’era da restare ipnotizzati! Il paese taceva. Non dissi addio, andandomene. Lo pensai soltanto. Ma a Mountdogg, dire e pensare sono la stessa cosa. Mi incamminai giù lungo il sentiero. Lei mi guardava da dietro una finestra. Io non la vidi, ma so che mi guardava mentre me ne andavo. Me ne andavo perché ero curioso del mondo, e mi sembrava che Mountdogg del mondo non fosse che una fettina minuscola, così minuscola che lo si poteva abbracciare tutto con un colpo d’occhio. Così, come l’avevo scoperto, e come ci avevo vissuto per un tempo che mi sembrava incalcolabilmente lungo, senza invecchiare di un solo giorno, senza neppure sentire il tempo che passava, così me lo lasciai alle spalle. Con la stessa semplicità, con la stessa leggerezza. Man mano che scendevo, attraverso il bosco, mi rendevo conto di non ricordare la strada per tornare indietro. Era come se, voltandomi, vedessi ogni volta un panorama diverso: una volta il fitto bosco di conifere, un’altra volta il pascolo con i crochi violacei appena spuntati, un’altra volta ancora un torrente che nemmeno ricordavo d’aver traversato, e di cui non sapevo il nome. Per anni, in seguito, non mi sono più ricordato nemmeno del paese, ho vissuto qui e là nel vasto mondo, come capitava, dove capitava.
Ma da un po’, ho preso a sognarlo, il vecchio Mountdogg, tutte le notti: le case di legno costruite una sull’altra, e il sentiero a strapiombo sulla valle, talmente stretto che a tratti bisogna percorrerlo schiacciandosi contro la parete e senza guardare di sotto! E so che il paese tutto, e anche lei, mi stanno aspettando. Se solo riuscissi… » – s’interruppe. Intanto che raccontava, rimestava con un bastone le poche braci del focherello, come un mestolo nel minestrone, per non farlo attaccare alle pareti della pentola. Fissava le fiamme, e io fissavo lui. Poi disse:
«Se solo potessi ritrovarlo!». E solo allora percepii come un’immensa disperazione nella sua voce tremolante come le fiamme del fuoco.
Gli dissi che, in tutto il Kaibab Plateau, mai avevo sentito parlare di un paese dal nome tanto strano.
Preston alzò gli occhi azzurri dalla superficie magmatica e baluginante del fuoco e li fissò brevemente su di me. E in essi, in quegli occhi che sembravano laghi profondi di montagna, quei laghi che prendono il colore del cielo soprastante, tanto che di giorno possono essere azzurri d’un azzurro profondo e la sera rossi come la lava vulcanica, in quel breve istante che durò l’incontro dei nostri sguardi, vidi qualcosa che neppure oggi, a tanti anni di distanza e con tanto che ci ho pensato, potrei dire con certezza.
Vidi un ripido sentiero acciottolato che, dopo una brusca curva, superava, strettissimo da mozzare il respiro per la paura, un costone sporgente come un balcone e si immetteva in un minuscolo agglomerato di case di legno, buttate una sull’altra come gli attrezzi in un capanno; e c’era una grande pace in quel luogo, c’era il senso di essere al sicuro, lontano da tutto, forse irraggiungibili. In quel solo istante in cui Preston appuntò sui miei i suoi occhi stanchi dal cammino, attorniati da minuscole rughe che sembravano i raggi di un piccolo sole, mi parve che trascorressero anni, mi parve di conoscere persone e luoghi, di abitare in una casa con tutte le sue consuetudini, e col suo odore schietto di legno e di fuliggine. Quando distolsi gli occhi dagli occhi azzurri e violenti di Preston, lui non c’era più. Ero solo, accanto ad un fuoco che non avevo acceso.
Mi sentivo terribilmente stanco, come avessi camminato giorni e giorni senza mai concedermi una sosta, e mi coricai per dormire. Quando mi svegliai, vidi accanto al fuoco ormai spento la fiaschetta, ancora mezza piena, del whisky. La raccolsi assieme alle mie poche cose (la conservo ancor oggi) e mi rimisi in cammino, attraverso il verde profondo dei pendii del Kaibab Plateau, coi suoi monti specchiati nell’acqua dei laghi.
Non rividi mai più Preston, per quanto lo cercassi negli anni successivi, chiedendo a chiunque incontrassi sui sentieri impervi del Kaibab Plateau. Né trovai mai, o sentii più nominare, un paese chiamato Mountdogg.