NOMADLAND di Chloé Zhao (USA, 2020 – 107’)
Il cinema americano, si sa, contiene tutto e il contrario di tutto. L’arco produttivo va dal chiassoso e futile blockbuster sull’ennesimo supereroe, con inquadrature di venti fotogrammi l’una, al film intimista e trattenuto, con la macchina da presa incollata al volto di un personaggio e lunghe pause di silenzio contemplativo. Normalmente, non apprezzo particolarmente nessuno di questi due estremi: il primo considerandolo fastidioso e ripetitivo, il secondo supponente e ostentatamente intellettualista. Dovendo scegliere, però, è ovvio che si ravvisino molti più punti d’interesse in un cinema che – contrariamente a tanti “sparatutto” e a tanti film d’azione che sembrano fatti con lo stampino – si sforzi di interrogarsi sul mondo e sulla realtà, proponendo magari, se non è chiedere troppo, uno sguardo innovativo, uno stile personale.
Ora, lasciando stare gli Oscar (è noto che io non ami parlare di premi, non trovandoli per nulla indicativi del reale valore di un film – o di un libro, se è per questo), non c’è dubbio che “Nomadland” sia un film che appartiene alla seconda categoria: lento, rarefatto, ondivago, un po’ slabbrato nell’arco narrativo, quasi casuale nell’incedere ostentatamente “malickiano”, eppure attraversato da un soffio reale di interesse e di vita, animato da una sana intenzione di capire e raccontare, di far vedere qualcosa che è – apparentemente – sotto gli occhi di tutti, e che pure sfugge.
Un fenomeno sociale? Non proprio: direi piuttosto una condizione esistenziale, quella di chi, in particolar modo negli Stati Uniti, perde tutto – l’amore, il lavoro, la casa – e decide (perché in fondo di decisione si tratta) di mettersi sulla strada, di rinunciare a quello che a noi pare tanto normale, una dimora, un’abitazione stabile, in favore di un rifugio a quattro ruote, un camper o un “van”. Vivendo di lavori stagionali e avventizi, queste persone – i moderni nomadi della società post-industriale – danno origine a un nuovo stile di vita, fatto di reciproco aiuto, di appoggio muto e solidale, e rifiutano qualunque consolazione “sociale”, rifiutano di vivere con una pensione da fame in un monolocale fetido alla periferia di qualche metropoli. Preferiscono un soffio di libertà, l’ultimo, magari, l’anticamera ariosa di un Aldilà che per qualcuno pare più che prossimo, addirittura incombente.
La protagonista, Fern, interpretata con la consueta maestria da una Frances McDormand che ha sposato in toto il progetto al punto di co-produrlo, è allora il tramite attraverso il quale vediamo le vite e le storie di questi nomadi contemporanei, raccontate dalla regista cinese con tatto e garbo, con una macchina da presa a seguire, mai invadente, presente ma non intrusiva, capace di fermarsi quando necessario, di indugiare su momenti che si dilatano, su sentimenti che diventano paesaggi e paesaggi che diventano stati d’animo e angosce. Con l’ausilio di pochi attori professionisti (assieme alla McDormand, merita menzione anche un bravo David Strathairn) e mettendo al centro del film i volti veri di tanti nomadi reali – un po’ alla Werner Herzog – Chloé Zhao coglie sicuramente nel segno e realizza un film che dice qualcosa del mondo e della vita, o che perlomeno si sforza di farlo, e non è un pregio da poco.
Sì, la disamina sociale lascia un po’ a desiderare (un Ken Loach sarebbe entrato certamente più nel profondo dello spersonalizzante lavoro stagionale per Amazon!), ma l’afflato umano dei personaggi e della protagonista compensa decisamente questo tipo di manchevolezze, e il risultato, anche grazie alla musica un po’ ricattatoria di Ludovico Einaudi, è un film dolcemente malinconico, non un mockumentary (per fortuna!) ma piuttosto un sincero ibrido tra fiction e documentario, cinema-verità come non se ne fa più, capace di far parlare il reale e di integrarlo armoniosamente con la finzione, come se la regista avesse imparato alla perfezione la lezione di un Werner Herzog (eh sì, ancora lui!) e sapesse benissimo quando la macchina da presa deve fermarsi davanti alla realtà e quando deve invece ricostruirla, la realtà, a prezzo di qualche bugia.
I momenti meglio riusciti sono, a mio avviso, proprio quelli in cui tra interpretazione e dati di reale si crea un magico equilibrio: l’inizio, con Fern che – in una gelida giornata – svuota il suo box a Empire, in Nevada, e si mette in viaggio sul van; le “cerimonie” dei nomadi nel deserto del New Mexico, pervase da un’umanità dolente e da una trattenuta mestizia; i tocchi iperrealisti legati alla vita su quattro ruote. Al contrario, ho trovato oggettivamente un po’ fasulle, lunghe e ostentate, le sequenze “casalinghe” – Fern che rivede sua sorella, o che va a trovare il suo amico ex-nomade riaccolto nell’alveo confortante della famiglia. Non che siano scene girate male, intendiamoci: ma è come se il film, quando lascia l’habitat della strada, avesse meno da dire, o ripetesse cose in fondo banali, lasciando intravvedere vecchie storie di famiglia, rancori mai risolti e conflitti generazionali più degni di un dramma da camera che di un road movie.
Quando invece Chloé Zhao scatena la sua macchina da presa dietro al furgone di Fern, o pedina i suoi personaggi nei paesaggi desertici che rispecchiano il loro fallimento (ma che allo stesso tempo lasciano in qualche modo intravvedere una possibilità di riscatto, una difesa della dignità personale), ecco che il film prende vita e acquisisce statura, senza diventare un capolavoro, d’accordo, ma meritando ampiamente la visione, alla faccia di tutto quel cinema fracassone che non racconta più nulla perché nemmeno si sforza più di raccontare qualcosa, dell’America come del mondo.
Per concludere, una nota personale: nell’andatura contemplativa di certi passaggi (ad esempio, il volo delle rondini rievocato da Swankie) è impossibile non rilevare la lezione di Terrence Malick, che per fortuna la regista ha il buon gusto di non imitare pedissequamente, ma di citare soltanto, con un uso tutto sommato garbato e prudente della macchina a mano; più difficile è notare un’altra ascendenza illustre (ma per pochi): “The brown bunny”, arduo e scostante film (datato 2003) di quell’arduo e scostante regista che è Vincent Gallo, terribile viaggio attraverso l’America con la morte nel cuore, fatto di lunghe scene in cui la strada, e solo la strada è al centro dell’inquadratura, come se non ci fosse più nulla da raccontare, e restasse solo il movimento, lento e costante, l’avanzare verso non si sa cosa, verso una fine che prima o poi, fatalmente, arriverà, e non porterà con sé (houellebecquianamente) nessuna acquisizione di consapevolezza, nessuna “rivelazione”. Ma forse, in fondo, il fascino discreto del road movie sta proprio in questo: nel suo potersi permettere di non raccontare nulla, perché il viaggio è già racconto, è già avventura e, per molti, è (ancora) vita.
GIUDIZIO SINTETICO: **½
LEGENDA RECENSIONI
Sia per i libri che per i film, adotto nel giudizio sintetico il sistema Mereghetti, che va da 0 a 4 stelline: a 0, ovviamente, i giudizi più negativi, a 4 quelli più positivi, con tutti i possibili gradi intermedi…