IL GIARDINO DI CEMENTO – Ian McEwan

# 91 – Ian McEwan – IL GIARDINO DI CEMENTO (Einaudi, 1994, ediz. orig. 1978, pag. 156)

Quattro fratelli – gli adolescenti Julia e Jack, e i più piccoli Sue e Tom – si ritrovano abbandonati a sé stessi in una casa isolata alla periferia di una città inglese: tutt’attorno alla costruzione, circondata da un giardino quasi interamente rivestito di cemento in mezzo al quale sbucano poche aiole di una vegetazione rinsecchita, si ergono palazzine abbandonate o demolite, prati incolti e periferica desolazione. I quattro ragazzi, immersi nella loro improvvisata autogestione, sembrano incapaci di far fronte a pulsioni di natura sessuale e a tensioni che covano sotto una superficie di ostentata quanto fasulla normalità. Fino a quando il loro segreto verrà svelato…     

Nell’avvicinarsi al “Giardino di cemento”, occorre anzitutto tenere presente che si tratta di un libro del 1978, figlio di quegli anni ‘70 che Coe, in un suo celebre libro, ha definito “anni marroni”. Anni di una letteratura un po’ avviticchiata su sé stessa, tutta presa a minare l’ideale di famiglia, a far esplodere le tante contraddizioni sociali che si percepivano, spesso, pur senza vederle chiaramente.

Romanzo d’esordio di Ian McEwan, che sarebbe diventato uno dei più importanti scrittori britannici del ‘900, “Il giardino di cemento” non può essere valutato oggi nello stesso modo in cui è stato valutato alla sua comparsa; oggi occorre tenere conto di tutto il tempo trascorso, e ammettere che “Il giardino di cemento” – pur restando un libro più che interessante – è invecchiato, e non è invecchiato benissimo. Bloccato com’è tra le asfissianti pareti domestiche di questa casa di periferia abbandonata e sporca, il libro vanta ancora una carica di trattenuto erotismo difficile da eguagliare (indimenticabili i momenti in cui Tom, il fratellino piccolo, viene vestito da bambina per mano delle sue sorelle più grandi, oppure la tensione che allo stesso tempo unisce e divide Jack – il narratore della storia – e sua sorella Julie) ma è anche, innegabilmente, un po’ datato nella ritmica e nella pretesa metaforica.

Mentre la trama, in sé molto esile, scivola verso un finale tutto sommato annunciato, McEwan non perde l’occasione di lanciare qualche sana stoccata non solo all’istituzione familiare, ma anche al lettore sprovveduto e/o moralista, disegnando lo spaccato di una micro-società composta da quattro ragazzi che non possono evitare (come non può evitarlo la società esterna) di infilarsi in un sottile e pervicace gioco al massacro, un gioco fatto di sopraffazioni e scherno, ma anche di attrazione e potere, tanto di affetto e complicità quanto di derisione e distanziamento. Il tocco di classe del grande scrittore si riconosce, anzitutto, nella scelta del punto di vista narrativo: non uno sguardo freddo e obiettivo, ma quello di uno dei protagonisti, Jack, quindicenne introverso attratto da sua sorella, in un gioco di ricombinazione dei ruoli familiari che coinvolge un po’ tutti: Julie sorella/madre, Tom bambino/bambina, Sue isolata nella sua mascolina riflessività, e Jack stesso diviso tra la voglia di essere “solo” un ragazzo, senza un pensiero per la testa come sarebbe giusto a quindici anni, e la necessità di crescere in fretta, di tenere testa a Derek, il presunto ragazzo di Julie, per recitare assieme a Julie stessa un ruolo più genitoriale che filiale.

Romanzo breve quanto complesso e stratificato, ricoperto da una dura crosta di cemento che però, in più punti incrinata e crepata, lascia intravvedere al di sotto una materia magmatica che non a caso sarebbe poi esplosa nei successivi capolavori di McEwan, “Il giardino di cemento” è indubbiamente un esordio interessante, che ci si potrebbe forse spingere a definire “folgorante”, ma che è altrettanto indubbiamente un po’ datato, più di quanto non  siano i romanzi – coevi o precedenti – di quello che negli anni ‘70 è stato – a mio avviso – il “faro” degli scrittori inglesi su tematiche come queste: James Ballard. L’esordio di McEwan, allora, si presenta così: un po’ ballardiano, ma senza arrivare fino in fondo, fermandosi un passo prima, e lasciando nel lettore, ancor oggi, una forte impressione di tensione sessuale e di conflitto sul punto di esplodere, ma anche – come uno di quei sogni in cui le cose non si realizzano mai – una certa, indefinibile, insoddisfazione di fondo.                  

(Recensione scritta ascoltando gli Shriekback, “Faded Flowers”)

PREGI:
come libro d’esordio, è certamente più che interessante, anche per i contenuti scabrosi: non a caso, un po’ com’è stato con “Crash” di Ballard, per una riduzione cinematografica si è dovuto aspettare il 1993… Notevole la capacità di tratteggiare con sottigliezza i rapporti tra fratelli: dalla volontà di Tom di essere travestito da bambina all’attrazione tra Julie e Jack, le pagine si susseguono dense di tensione sessuale inespressa

DIFETTI:
un po’ datato nei temi e nei concetti di fondo, il libro si compiace fin troppo di sé stesso e della sua essenza metaforica (il cemento che dovrebbe tenere assieme casa e famiglia che diventa elemento asfissiante e rivelatore delle tensioni interne)

CITAZIONE:
“- È venuto in camera mia e mi ha chiesto: «Com’è essere una ragazza?» e io ho risposto «È piacevole, perché?» E lui ha detto che è stanco di essere un maschio e adesso vorrebbe essere una ragazza. […] Allora gli ho detto: «Perché vuoi essere una ragazza?» e lui ha detto «Perché le ragazze non le picchiano»” (pagg. 49-50)

GIUDIZIO SINTETICO: **½

LEGENDA RECENSIONI
Sia per i libri che per i film, adotto nel giudizio sintetico il sistema Mereghetti, che va da 0 a 4 stelline: a 0, ovviamente, i giudizi più negativi, a 4 quelli più positivi, con tutti i possibili gradi intermedi…

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NON GIUDICABILE con i sistemi ìclassiciî di voto
PESSIMO
QUASI PESSIMO
BRUTTO
BRUTTINO
 
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**1/2
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***1/2
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ACCETTABILE
DISCRETO
BUONO
MOLTO BUONO
CAPOLAVORO