IL SENO – Philip Roth

# 257 – Philip Roth – IL SENO (Il Sole 24 Ore, 2011, ediz. orig. 1971, pagg. 76)

Il trentottenne professore di letteratura comparata David Alan Kepesh, dopo aver accusato qualche disturbo cutaneo, fa appena in tempo a preoccuparsi, ipocondriaco com’è, che si ritrova trasformato in un seno femminile di settanta chili! Qualunque cosa sia successa, è accaduta nel corso di una notte di cui Kepesh non serba praticamente alcun ricordo. Ricoverato presso una clinica, al riparo da sguardi indiscreti, Kepesh divenuto seno riceve le visite periodiche – e perlopiù non rasserenanti – della sua fidanzata Claire, di suo padre e del suo psicanalista, il dottor Klinger, che cerca di convincerlo di non essere diventato pazzo bensì di essersi realmente trasformato in un gigantesco seno di donna. E così, tra una riflessione e una discussione (Kepesh in qualche modo riesce ancora a “parlare”, anche se in maniera molto flebile), tra la speranza di risvegliarsi un giorno nel proprio letto, ritornato normale, e il desiderio di essere leccato e succhiato da una torma di ragazzine adolescenti, la vita del metamorfizzato professore sembra destinata a trascinarsi nella tanto morbida quanto inflessibile prigionia di quella stessa materia adiposa femminile che egli, da uomo, tante volte aveva desiderato e idolatrato.  

Pubblicato per la prima volta nel 1971, e arrivato in Italia nel 1980, questo racconto lungo è forse il più surreale e grottesco dell’intera produzione di Philip Roth. Evidente omaggio a capolavori della letteratura mondiale come “La metamorfosi” di Kafka e “Il naso” di Gogol’ (non a caso entrambi citati nel racconto, e ben noti al protagonista Kepesh, professore di letteratura) e, allo stesso tempo, riflessione sull’arte e sulla scrittura, o meglio, sul rischio di amare troppo arte e scrittura, al punto da travasarsi in esse ed esistere quasi solo in funzione di ciò che si legge e si studia, “Il seno” è un testo lucido e disperato, attraversato però anche da un evidente afflato comico, e caratterizzato da uno stile caustico e ghignante, più vicino a “Lamento di Portnoy” (di poco precedente, visto che è del 1969) che ad altre opere rothiane.

Il personaggio di David Kepesh tornerà, e non in forma di seno, in altri due romanzi del grande scrittore americano: “Il professore di desiderio” (1977) e “L’animale morente” (2001). Ora, il fatto che Roth abbia deciso di riprendere per due volte questo personaggio, ignorando la sua uscita più estrosa (ed… estrogena!) e riconducendolo a un piano di realtà più accettabile e condiviso dimostra, a mio parere, che “Il seno” vada letto come uno scherzo, una bagattella scritta per scandalizzare un po’ il lettore ingessato e psicorigido, una barzelletta con un fondo – attenzione – molto serio, molto violento: qual è il confine tra la normalità e la pazzia propriamente detta?

Come può il professor Kepesh capire se la sua assurda trasformazione sia avvenuta per davvero, o se non sia un frutto della sua fantasia malata, esacerbata e portata al grado estremo di sensibilità da anni e anni di letture immersive e totalizzanti dei grandi classici della letteratura e del pensiero? Kepesh potrebbe essere visto come il prigioniero di una “ipocondria letteraria” che l’ha portato, suo malgrado, a voler superare il Kafka de “La metamorfosi” – testo sommamente amato – realizzando nella propria stessa mente una metamorfosi tutta sua, ridicola e oscena, sessualizzante e autopunitiva (anche nelle condizioni in cui si trova, l’erotomane Kepesh non rinuncia a desiderare che le donne gli si siedano sul grosso capezzolo, e vi si strofinino contro, nonostante questi non lo possa portare ad alcun orgasmo, ad alcun reale soddisfacimento sessuale).

Vero e proprio enigma, la metamorfosi del protagonista è l’innesco di una confessione che non riesce mai a diventare liberatoria (in fondo, la coscienza e il cervello di Kepesh sono prigionieri di circa 70 chilogrammi di materia adiposa!) e che non approda a nulla, perché non c’è uscita da quest’incubo sospeso fra il tragico e il ridicolo, da questo remake di altre ben più celebri metamorfosi che il povero Kepesh – epigono, come noi tutti, dei grandi scrittori di cui si è cibato per una vita – può soltanto rievocare, con la propria trasformazione in parte anatomica che non può non far correre il pensiero dei cinefili alla “tetta gigante” (e assassina!) di un poco noto film di Woody Allen datato, guarda un po’, 1972: “Tutto ciò che avreste voluto sapere sul sesso (ma non avete mai osato chiedere)”. In uno degli episodi che compongono il film, Allen immagina, sulla falsariga degli horror anni ’50 nei quali tarantole o lucertole cresciute a dismisura per colpa dei raggi X o di altre diavolerie scientifiche minacciano intere città o Nazioni, che gli esperimenti di un assurdo professore portino alla creazione di una gigantesca tetta che travolge tutto quello che trova sul suo cammino.

Difficile non istituire un parallelo con l’idea di Roth, anche se tutto ciò che in Allen è citazionismo cinematografico e boutade visionaria, in Philip Roth diventa gioco (al massacro) letterario e barzelletta (ebraica) che a un certo punto smette di far ridere, e induce a riflettere, o comunque a empatizzare con un personaggio che, se armato di sesso ha ferito e offeso, del suo feticcio sessuale prediletto è ora prigioniero, in una metamorfosi che è anche, e soprattutto, una condanna: l’ennesima comminata a un personaggio rothiano per il peggiore dei delitti, il senso di colpa per la propria innata ebraicità, per la propria antropologica diversità.        

(Recensione scritta ascoltando Philip Glass, “Metamorphosis”)

PREGI:
facezia scritta, al solito, in modo perfetto, misurata e intelligente, è una barzelletta che pian piano diventa sogno d’angoscia, e imprigiona il lettore nello stesso tessuto adiposo che ha inglobato il protagonista. Lettura veloce e gustosa, da non negarsi

DIFETTI:
la visionarietà estrema dell’assunto (un uomo divenuto seno, di settanta chili, ricoverato in una anonima stanza di una altrettanto anonima clinica) non è sempre facile da immaginare, e all’opera nel complesso manca ovviamente un po’ di quel “respiro” che avrebbe connotato i successivi libri con protagonista David Kepesh   

CITAZIONE:
“È stata la narrativa a ridurmi così? […] Questo potrebbe benissimo essere il mio modo di essere un Kafka, un Gogol’, uno Swift. […] Amavo l’estremo in letteratura, idolatravo quelli che lo creavano, ero praticamente ipnotizzato dalle immagini e dalla loro suggestione… […] Dunque ho fatto il salto. Ho reso la parola carne. Non vede, sono più kafkiano di Kafka.” (pagg. 70-71)

GIUDIZIO SINTETICO: **½

LEGENDA RECENSIONI
Sia per i libri che per i film, adotto nel giudizio sintetico il sistema Mereghetti, che va da 0 a 4 stelline: a 0, ovviamente, i giudizi più negativi, a 4 quelli più positivi, con tutti i possibili gradi intermedi…

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1/2
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NON GIUDICABILE con i sistemi ìclassiciî di voto
PESSIMO
QUASI PESSIMO
BRUTTO
BRUTTINO
 
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**1/2
***
***1/2
****
ACCETTABILE
DISCRETO
BUONO
MOLTO BUONO
CAPOLAVORO