LECTIO BREVIS / 114

Testi, pre-testi, divagazioni e spunti minimi intorno a libri letti, riletti, sfogliati

A cura di Roberto Mandile

PUNTATA 114
GALLERIA DI QUADRI
Quando i dipinti ispirano la letteratura

Arturo Pérez-Reverte – LA TAVOLA FIAMMINGA (1990)

Di cosa parla: Madrid. Julia è una giovane restauratrice. Lavorando sul dipinto fiammingo La partita a scacchi di Pieter Van Huys, risalente al 1471, scopre una scritta nascosta, di mano dell’autore e da lui stesso ricoperta: “Quis necavit equitem?”, ossia “Chi ha ucciso il cavaliere?”. Cercando di decifrare il mistero, Julia approfondisce la vicenda dei tre personaggi raffigurati, uno dei quali morto da due anni nel momento in cui il quadro fu realizzato. Ma, quando uno degli esperti consultati, il professor Ortega, con il quale la giovane ha avuto qualche anni prima una relazione sentimentale, viene trovato morto in circostanze sospette, Julia capisce di essere finita in un gioco ben più pericoloso di una partita a scacchi…

Commento: Si può scrivere un thriller che giochi con la storia senza sfiorare il ridicolo? Se si pensa a tanta produzione degli ultimi vent’anni (Il Codice da Vinci, per limitarci al titolo più celebre e discusso i vent’anni li compie proprio nel 2023), l’impressione è che l’equilibrio sia precario: il rischio non è solo quello di farsi prendere la mano da complotti, sette segrete, oscure trame nella ricostruzione (giocoforza fantasiosa) del passato, ma anche quello di trascurare la narrazione nel presente.

Pérez-Reverte dimostra, con questo romanzo, che intrecciare i due piani temporali è possibile e, se si è bravi, i risultati pagano: merito di una vicenda che regge, per tensione, dalla prima all’ultima pagina (il finale, certo, cede un po’, ma è un peccato veniale), di personaggi ben tratteggiati, di colpi di scena dosati e non forzati, di una erudizione non compiaciuta che fa da sottofondo alla vicenda principale, in un continuo gioco di specchi tra il passato e il presente affidato al tema scacchistico, capace di per sé di irradiare una miriade di rimandi simbolici. E anche se le pagine dedicate alla soluzione del problema di scacchi raffigurato nella tavola di Van Huys possono apparire ostiche al non appassionato, quello che salva il libro è la tenuta della storia, che non ha cedimenti sul piano della logica, e la capacità del lettore di guidare il lettore passo dopo passo con un ritmo incalzante ma non inutilmente frenetico. Il resto lo fa il fascino della pittura fiamminga, da secoli uno dei più splendidi esempi di come l’arte sia un groviglio inestricabile di passato e presente, al tempo stesso testimonianza della realtà ed enigma insolubile.

GIUDIZIO: ***

Roberto Torre – L’UOMO DAL CAPPELLO DI PAGLIA (1996)

Di che cosa parla: Torino. Un uomo, di professione consulente editoriale, viene a sapere che dietro un quadro di Antonio Renier, pittore piuttosto rinomato, che gli è stato regalato anni prima, si cela un mistero, all’apparenza curioso: la data riportata del dipinto è posteriore alla morte dell’artista. Come si spiega l’arcano? Incuriosito dalla circostanza, il protagonista decide di andare a fondo della cosa, anche perché, nel frattempo comincia ad avere orribili incubi nei quali compare uno strano uomo dal cappello di paglia, del tutto simile a uno dei soggetti del dipinto. Per spiegare l’enigma, sembra impossibile non cadere nelle spire del paranormale…

Commento: Torino capitale dell’occultismo, della magia nera, dello spiritismo, della necromanzia: per sfruttare letterariamente un luogo comune come questo, servirebbe il genio di Fruttero & Lucentini (che, almeno in parte, lo fanno in A che punto è la notte). A Roberto Torre non si può forse chiedere tanto: il romanzo, in effetti, sembrerebbe sfruttare uno degli aspetti più noti e più ambigui della città piemontese, da sempre divisa tra la sua anima razionale, romana e sabauda, e il suo lato nero, che ha trovato eco negli esperimenti sensitivi di Gustavo Rol e nei film di Dario Argento (Profondo rosso su tutti). E le premesse, in verità, non sono male: fino agli incubi che tormentano il protagonista, le cose reggono. Peccato che gli incubi si presentino già nel secondo capitolo e l’autore, dopo avere costruito un’atmosfera potenzialmente inquietante, paia fare apposta a diminuire di pagina in pagina la tensione e a sostituire i brividi con la noia. A furia di fili lasciati penzolare, di incontri e rivelazioni che dovrebbero sciogliere qualche nodo delle indagini ma si risolvono nel nulla, l’interesse del lettore viene narcotizzato, affogato in discorsi che girano a vuoto, tra scene che promettono di essere orrorifiche e invece non portano da nessuna parte, personaggi che dovrebbero essere inquietanti e si rivelano più ordinari di un onesto ragioniere e una narrazione di rara inconcludenza. E dire che bastava un colpo di scena, anche prevedibile, un qualche sussulto, anche a costo di sfiorare l’improbabile, per rianimare il romanzo senza annegare la suspense in un mare di chiacchiere. La conclusione, verbosa e a dir poco didascalica, è un capolavoro di cerchiobottismo: per non dover scegliere tra una spiegazione razionale e un finale che lasci aperti gli interrogativi teoricamente più inspiegabili della storia, l’autore opta per una via di mezzo che, a quanto afferma lo stesso protagonista-narratore, riesce a spegnere l’interesse persino in lui! La scena della profanazione della tomba, comunque, è più credibile (e spaventosa) in Frankenstein junior.

GIUDIZIO: *

PRE-TESTI, DIVAGAZIONI
E SPUNTI MINIMI

Che la letteratura abbia ispirato le arti figurative è faccenda troppo nota per essere trattata: dalle più o meno celebri ma assai numerose edizioni illustrate della Divina Commedia di Dante (ma Gustave Doré realizzò incisioni anche per innumerevoli altri autori, da Rabelais a Cervantes, da La Fontaine a Balzac a Poe) ai tanti libri per bambini e ragazzi in cui testo e immagini sono in diretta corrispondenza, gli esempi abbondano. Altra faccenda sono i casi in cui la letteratura nasce a supporto o a commento di immagini. Prescindendo da quel genere particolare, noto in ambito specialistico come tituli historiarum, ossia gli epigrammi che, fin dall’epoca tardoantica, nascono come didascalie di cicli di pitture o di mosaici dedicati a episodi biblici (ne scrisse, tra gli altri, anche Sant’Ambrogio), scegliamo due esempi assai più recenti di poesie novecentesche ispirate a dipinti. Il primo testo, che di didascalico ha il titolo, Su un ritratto, è del grande poeta americano Thomas Stearns Eliot e prende spunto da un quadro di Édouard Manet, La Femme aux perroquet, conservato a New York. Eliot rileva, nel dipinto, l’imperturbabilità della donna dipinta (modella di Manet e pittrice a sua volta), la sua capacità di restare estranea alla frenesia della vita. A osservarla, anzi a spiarla silenziosamente, c’è solo il pappagallo:

Édouard Manet, La Femme aux perroquet

“Fra una folla di sogni tenui, ignoti
a noi di mente inquieta e piedi stanchi,
sempre di corsa su e giù per strada,
essa indugia di sera, sola nella stanza.

Non come una dea tranquilla scolpita in pietra
ma evanescente, come se incontrassimo
una lamia pensosa in un ritiro agreste,
una fantasia smateriata di nostra invenzione.

Nessuna meditazione gaia o minacciosa
disturba quelle labbra, o muove le mani fini;
i suoi occhi neri i loro segreti nascondono,
oltre l’ambito dei nostri pensieri essa sosta.

Il pappagallo sulla stanga, spia silenziosa,
la osserva con occhio paziente e curioso.”

Torniamo alla pittura fiamminga, e a uno dei suoi maestri indiscussi, Pieter Bruegel il Vecchio, con Musée des Beaux-Arts di un altro gigante della poesia del XX secolo, l’inglese di nascita ma americano per scelta Wystan Hugh Auden. Il testo, come detto, è ispirato ad alcuni dipinti di Bruegel, in particolare a La caduta di Icaro, quadro in cui il celebre evento mitologico (è l’unica opera di Bruegel di contenuto mitologico) accade nella pressoché totale indifferenza di tutti gli altri personaggi: per Auden, è il segnale del fatto che il dolore è sempre espressione del disinteresse altrui. Il che, considerata la data di composizione e di pubblicazione della raccolta Another Time in cui la poesia è inserita – siamo tra il 1936 e il 1940; nel 1939 Auden si trasferì negli USA – getta una luce chiarificatrice e al tempo stesso profetica sulle tragedie recenti e imminenti di quegli anni:

“Sul dolore la sapevano lunga,
gli Antichi Maestri: quanto ne capivano bene
la posizione umana; come avvenga
mentre qualcun altro mangia o apre una finestra o se ne va a zonzo spensierato;
come, quando gli anziani aspettano riverenti, con fervore,
la miracolosa nascita, debba sempre esserci
qualche bambino che non l’avrebbe voluta e pattina
su un laghetto alle soglie del bosco:
non dimenticavano mai
che anche l’orrendo martirio deve compiere il suo corso
comunque in un angolo, in un sudicio luogo
dove i cani fanno la loro vita da cani e il cavallo del torturatore
si gratta l’innocente didietro contro un albero.
Nell’Icaro di Brueghel, per esempio: come ogni cosa ignora
serena il disastro! L’aratore può
aver udito il tonfo, il grido desolato,
ma per lui non era una perdita grave; il sole splendeva
come doveva sulle bianche gambe inghiottite dalle verdi
acque; e la ricca ed elegante nave che doveva aver visto
una cosa incredibile, un ragazzo cadere dal cielo,
aveva una meta e via passava placida.”

Pieter Bruegel il Vecchio
Pieter Bruegel il Vecchio, La caduta di Icaro

Testi citati:
Thomas Stearns Eliot – SU UN RITRATTO – traduzione di Massimo Bagicalupo (1909)
Wystan Hugh Auden – MUSÉE DES BEAUX-ARTS, in “Un altro tempo” – traduzione di Nicola Gardini (1940)