# 125 – Franco Antonio Belgiorno – L’ACCALAPPIATEMPO (Sellerio, 2001, pagg. 142)
Una serie di racconti accomunati dall’ambientazione siciliana (nella fattispecie Modica) o, comunque, dalla nostalgia per l’isola, e dal desiderio di ritornarvi; la suddivisione nelle quattro stagioni (Primavera-Estate-Autunno-Inverno) cadenza i racconti come a comporre una sorta di “ruota annuale modicana” che offre al lettore diversi sguardi, e diverse “luci”, su quest’affascinante angolo di Sicilia, visto perlopiù dalla prospettiva di un personaggio (alter ego dell’Autore?) che, dopo aver vissuto molti anni all’estero, vi fa ritorno, riscoprendo antichi riti e paesaggi – per dirla con Musil – “visti e rivisti e poi dimenticati”.
Bella scoperta questo libriccino di un poco conosciuto Autore italiano (poi mi dicono che non leggo gli italiani!) che funge, a mio avviso, da contraltare all’onnipresente Camilleri, che sembra essersi accaparrato, negli ultimi vent’anni perlomeno, il diritto di descrivere la Sicilia con voce quasi dittatoriale. Ebbene, no, la Sicilia non è solo Camilleri.
La Sicilia, anzi, vive quasi di più in questi racconti scritti in bell’italiano, con rapidi e sapidi tocchi di sicilianità, da Franco Antonio Belgiorno, emigrato (in Germania) di ritorno che descrive non tanto l’aspetto della Sicilia o di Modica, quanto piuttosto la loro essenza. Le trame dei racconti (anche se alcuni sono mirabili anche per l’arco narrativo) non sono la cosa più importante. Si va dal ragioniere che muore improvvisamente, e serenamente, visto che proprio in punto di morte gli tornano tutti i conti della sua vita, all’innamorato timido che non ha il coraggio di dichiararsi alla attempata “signora rimasta signorina”; e ancora, dal quadretto infantile di una torma di ragazzini che osservano un anziano giardiniere parlare con le piante all’uomo che ascolta le confidenze sessuali di un amico, condannato da un male incurabile.
Ma i racconti più interessanti sono quelli in cui l’Autore si mette in scena (quasi) senza filtri, descrivendo quello che sembra a tutti gli effetti il suo stesso ritorno a Modica, accompagnato da una moglie tedesca che, seppur affascinata, non capisce fino in fondo quel “maledetto Sud” fatto di Sole, caldo, fantasmi e parole non dette. A tratti un po’ criptico, dal tono sostenuto e un po’ ricattatorio per come gioca coi ricordi e con le inevitabili malinconie e le nostalgie di ogni lettore, questa piccola raccolta di racconti – al di là della tremenda tristezza che traspare da parecchi testi – è un gioiellino di scrittura, soprattutto per la nitidezza delle formulazioni e per l’indubbia capacità dell’Autore di restituire sensazioni e impressioni legate alla terra d’origine, quella che i tedeschi chiamano “Heimat”, il luogo primigenio, il posto dove si appuntano, e vanno forse a morire, i ricordi. I racconti sono diseguali: se “L’ultima Pasqua”, “Un ritorno”, “Via col vento” e “Luce di febbraio” possono essere considerati molto belli, altri oggettivamente non riescono ad elevarsi oltre la dimensione del “bozzetto d’ambiente”, e altri ancora lasciano forse intravvedere un pizzico di autocompiacimento. Ma, nel complesso, questo piccolo libro è malinconicamente gradevole, apre silenziosamente – socchiudendola appena – la porta verso un altro mondo, fatto di Tempo e ricordi, di Sole sorto e tramontato e di amori impossibili, di rimpianti e di (vane?) speranze.
Proprio il Tempo è costantemente al centro della riflessione dell’Autore: nessun racconto – come succede in moltissime raccolte – dà il titolo al libro. “L’accalappiatempo”, allora, è proprio l’Autore, che fissa in questi brevi racconti il tempo del suo stesso ritorno nella natia Sicilia, il tempo (irrimediabilmente perduto) della sua infanzia, della sua giovinezza, e il tempo (altrettanto perduto, forse, ma in un senso più proustiano) trascorso lontano da quella terra magica, nella lontana e fredda Germania. Il Tempo, visto volta a volta “come un signore distratto o un bambino che dorme” (De André, of Course), è il vero protagonista di queste novelle dolci e malinconiche, tristi e ghignanti, trattenute e disperate, che lasciano nel lettore – a fasi alterne – un ricordo tenue e piacevole, come il Sole estivo sulla spiaggia nell’ora del tramonto, e una sensazione terribile di perdita e di fine, come il buio che, d’inverno, cala presto, a ricordarci forse la tremenda brevità di quell’esperienza che chiamiamo “vita”.
(Recensione scritta ascoltando Fabrizio De André, “Hotel Supramonte”)
PREGI:
scrittura tecnicamente di alta qualità, non priva di costrutti preziosi e ricercati e ben calibrata sulla materia che descrive. L’Autore – ed è un punto di merito – racconta la Sicilia con pochi “sicilianismi”, contrapponendosi al flusso simil-dialettale continuo – e a tratti stucchevole – di un Camilleri
DIFETTI:
qualche racconto sembra volersi spingere, un po’ programmaticamente, al di là della malinconia per il tempo passato, per addentrarsi nei territori di una mestizia un po’ autocompiaciuta e, fondamentalmente, meno efficace
CITAZIONE:
“Tutta quell’assenza non era riuscita a cancellargli la memoria, e adesso vedeva i visi di persone dimenticate, coi loro sorrisi benevoli tra attonita tenerezza e rimprovero. Pianse, e lei con un gesto quasi materno, gli accarezzò i capelli. Ciò la eccitò ancora di più e le sembrò che lo possedesse per la prima volta. Silenziosamente pianse anche lei, il viso disfatto in un pallore di perla. Tenera e innocente lo prese con ferocia, perdendosi in un bagliore di sensi. «Il maledetto sud», ebbe appena il tempo di dire.” (pagg. 22-23 – Dal racconto “Un ritorno”)
GIUDIZIO SINTETICO: **½
LEGENDA RECENSIONI
Sia per i libri che per i film, adotto nel giudizio sintetico il “sistema Mereghetti”, che va da 0 a 4 “stelline”: a 0, ovviamente, i giudizi più negativi, a 4 quelli più positivi, con tutti i possibili gradi intermedi…