LECTIO BREVIS / 110

Testi, pre-testi, divagazioni e spunti minimi intorno a libri letti, riletti, sfogliati

A cura di Roberto Mandile

PUNTATA 110
LASCITI ED EREDITÀ
Disposizioni, legati, doni inaspettati, piccoli testamenti e grandi sostanze

Agatha Christie – È UN PROBLEMA (1949)

Di cosa parla: La morte improvvisa di Aristide Leonides, l’ultraottantenne miliardario di origine greca che ha fatto fortuna in Inghilterra, è fonte di interesse e preoccupazione anche per Charles Hayword, che è innamorato della nipote dell’uomo, Sophia, ed è al contempo figlio di un importante funzionario di polizia. L’autopsia rivela infatti che Leonides è stato assassinato con una dose di eserina, sostituita all’insulina che l’anziano assumeva regolarmente tramite iniezioni. Tutti i sospetti si concentrano su Brenda, la giovane moglie sposata in seconde nozze, ma le indagini sono appena all’inizio quando si scopre che il defunto ha cambiato il testamento nominando erede universale Sophia…

Commento: “Tempo dopo mi sarei domandato come avevo potuto essere così cieco. La verità era evidente, sin dall’inizio”. Parola di Charles Hayward, il narratore della storia, che qui incarna la (scusabile?) dabbenaggine del lettore comune, che, come il personaggio, ha appena conosciuto (siamo all’inizio dell’ultimo capitolo) la verità e si rammarica di non averla intuita prima. Agatha Christie dà il meglio di sé in una storia che, facendo a meno degli investigatori fissi, si concentra sulla caratterizzazione dei personaggi, compresi entro una cerchia familiare e rispecchiati, anche simbolicamente, nella Crooked House (alla lettera “la casa storta”) dove vivono e che dà il titolo alla versione originale. Pochi fronzoli (i critici hanno sempre rimproverato all’autrice la mancanza di uno stile, ma la precisione nella resa dei dialoghi, ad esempio, è un’arte rara) e molta sostanza. Il romanzo conferma, tra l’altro, che il giallo inglese è l’aggiornamento borghese della tragedia shakespeariana: qui neanche il finale è consolatorio. Resta la domanda di fondo di tanti gialli: per scoprire l’assassino basta basarsi sui più biechi moventi materiali, come una ricca eredità, o questi sono solo fumo negli occhi utile a confondere le idee del lettore?

GIUDIZIO: ***½

Saul Bellow – IL DONO DI HUMBOLDT (1975)

Di cosa parla: La morte dell’amico Von Humboldt Fleischer, poeta tanto grande quanto refrattario a compromessi, costringe Charles Citrine, scrittore toccato dal successo letterario, a rivedere il senso della propria esistenza, minacciata da Kathleen, la ex moglie intenzionata a ridurlo sul lastrico, da Rinaldo Cantabile, un gangster scalcagnato, e da Renata, la nuova amante che vuole sposarlo ad ogni costo. A trarlo d’impaccio ci penserà proprio il defunto Von Humboldt, con la sua inattesa eredità: il soggetto per una nuova commedia, che si rivelerà per Citrine una vera ancora di salvezza…

Commento:
Ispirato all’amicizia dell’autore con Delmore Schwartz, scrittore maledetto almeno sul piano biografico, il libro che forse diede un contributo decisivo all’assegnazione del Premio Nobel 1976 allo scrittore, canadese di nascita, statunitense di adozione ed ebraico di origini, si contende la palma di miglior romanzo con il precedente Herzog, primo grande successo di Bellow. A nostro avviso, la storia di Humboldt e Citrine è superiore per l’impianto narrativo, la capacità di costruire una trama che non conosce momenti di stanca e che, ravvivata da equivoci, colpi di scena, momenti comici, mette in giusto rilievo la personalità dei personaggi, tutti riuscitissimi. La dimensione mitizzata del Grande Scrittore ne esce ridicolizzata dalle tante, piccole o grandi, beghe quotidiane, se non dai vizi privati che costellano l’esistenza tanto di Von Humboldt quanto del narratore Citrine, alle prese con la difficoltà di conciliare il successo letterario con quanti, intorno a lui, sperano di raccoglierne i frutti materiali. La leggerezza, però, non è superficialità; Bellow, anzi, intesse intorno a un plot quasi da operetta o da commedia degli equivoci una riflessione articolata e profonda sul significato stesso della vita. Sotto le spoglie del romanzo travolgente, divertente e, come detto, ampiamente autobiografico, lo scrittore affronta in realtà con una vena buffonesca il più serio dei temi: la morte. I confronti con l’opera di Philip Roth, il più grande scrittore ebreo-americano del Novecento, sono inevitabili, anche perché Roth il Nobel non l’ha mai vinto, riuscendo nella notevole impresa di figurare tra i papabili per più di vent’anni.

GIUDIZIO: ****

PRE-TESTI, DIVAGAZIONI
E SPUNTI MINIMI

In genere, diffidare degli scrittori che vogliono lasciare in eredità qualcosa attraverso la loro opera: tendenza, naturalmente, più tipica dei poeti che, non riuscendo a rifuggire dalla tentazione di tornare a cingersi dall’aureola di vate, cedono alla tentazione di offrire consigli non richiesti, dal vago tono predicatorio, per consegnare alla posterità una sorta di lascito spirituale, buono ad essere ponderato, quando l’artista ci avrà lasciato, come forte monito o, nella migliore delle ipotesi, come lucida profezia.

Esistono, va da sé, le eccezioni. Una delle più notevoli è il Piccolo testamento di Eugenio Montale, penultima poesia della raccolta La bufera e altro, collocata, significativamente, all’inizio della brevissima ultima sezione dal titolo Conclusioni provvisorie. È un testo che si ricollega alla poetica negativa dell’autore, che ribadisce la sua capacità di dire solo “ciò che non siamo, ciò che non vogliamo” (anche qui le negazioni abbondano), ma è anche l’unica forma di resistenza possibile che il poeta può indicare come gesto di sopravvivenza nelle tragiche esperienze, dal fascismo alla guerra e al dopoguerra, che hanno accompagnato e segnato la composizione della raccolta stessa, datata 1940-1954:

“Questo che a notte balugina
nella calotta del mio pensiero,
traccia madreperlacea di lumaca
o smeriglio di vetro calpestato,
non è lume di chiesa o d’officina
che alimenti
chierico rosso, o nero.
Solo quest’iride posso
lasciarti a testimonianza
d’una fede che fu combattuta,
d’una speranza che bruciò più lenta
di un duro ceppo nel focolare.
Conservane la cipria nello specchietto
quando spenta ogni lampada
la sardana si farà infernale
e un ombroso Lucifero scenderà su una prora
del Tamigi, dell’Hudson, della Senna
scuotendo l’ali di bitume semi-
mozze dalla fatica, a dirti: è l’ora.
Non è un’eredità, un portafortuna
che può reggere all’urto dei monsoni
sul fil di ragno della memoria,
ma una storia non dura che nella cenere
e persistenza è solo l’estinzione.
Giusto era il segno: chi l’ha ravvisato
non può fallire nel ritrovarti.
Ognuno riconosce i suoi: l’orgoglio
non era fuga, l’umiltà non era
vile, il tenue bagliore strofinato
laggiù non era quello di un fiammifero.”

Di testamenti veri, e di patrimoni tutt’altro che simbolici, si preoccupa invece Beniamino Vernavaghi, il ricchissimo prozio degli Accoppiamenti giudiziosi di Carlo Emilio Gadda. Ritrovatosi “in vecchiaia, a settant’anni, vedovo senza figli né discendenti diretti” e ossessionato dal terrore di vedere divisa la sua eredità, anzi la Sostanza, il Vernavaghi si arrovella, per ovviare al problema, a combinare matrimoni. A partire da quello tra il pronipote Giuseppe, buono a nulla se non a sperperare denaro, e l’assennata Adelaide Carpioni, nipote della defunta moglie Teresa e vedova di Cesare Golliati e madre del quindicenne Luciano. Il testo, oggi riunito nell’omonima raccolta insieme ad altri fenomenali brani satirici, doveva, nelle intenzioni dell’autore (che lo presentava a Livio Garzanti come l’antefatto di un soggetto cinematografico), ampliarsi fino a estendersi su due o tre generazioni. La satira della borghesia milanese diventa, nelle mani di Gadda, un gioco delizioso di continue invenzioni e trovate, che rivelano, ad ogni riga, ad ogni giro di frase, la ricchezza di una lingua densa, magmatica e spassosissima. Come si capisce, ad esempio, leggendo le prime disposizioni testamentarie pensate dal prozio Beniamino:

“Il testamento – in apparenza strano, logico in fatto, ove si portino in computo le doti al plurale di Adelaide ragioniera accorta e computista infallante, la sua posizione venarvagonica di moglie, i summentovati difetti del marito Giuseppe zuzzurellone beoncello e allegro ed elegante bell’uomo, ex capitano dei lancieri di Novara – il testamento aveva finito per prendere la seguente piega: «I due coniugi Venarvaghi, capitano in posizione ausiliaria Giuseppe e Adelaide nata Carpioni e vedova del Golliati ragionier Cesare, sono istituiti coeredi e usufruttuari pro indiviso del patrimonio del Venarvaghi Beniamino: essi verranno a beneficiare in comune», ossia in pratica metà per uno, «del reddito del patrimonio medesimo, condizione che è appunto detta d’usufrutto: mentre l’intero capitale, mobile e immobiliare, sarà in definitiva ereditato da quello dei due coniugi che sopravviverà all’altro.» Ciò avrebbe avuto per effetto, secondo i calcoli dello zio Beniamino, di ritardare in ogni modo lo sperpero della Sostanza da parte del pronipote Giuseppe, fino ad epoca nella quale Giuseppe, se pure premortagli Adelaide, non sarebbe stato più in grado di sperperarla, per cessata funzione… vuoi degli organi sperperatori, vuoi delle attitudini sperperatrici: (che sono forse tutt’uno).”

Testi citati
Eugenio Montale – PICCOLO TESTAMENTO, in “La bufera e altro” (1956)
Carlo Emilio Gadda – ACCOPPIAMENTI GIUDIZIOSI (1958)