Testi, pre-testi, divagazioni e spunti minimi intorno a libri letti, riletti, sfogliati
A cura di Roberto Mandile
PUNTATA 117
FIABE NERE
Fate, orchi e mostri vari: che volto ha il male?
Daniel Pennac – LA FATA CARABINA (1987)
Di cosa parla: Quando una vecchia che sta attraversando la strada impugna una pistola e la punta contro il poliziotto che si è offerto di aiutarla uccidendolo, c’è di che interrogarsi. A far luce ci pensano, naturalmente, le indagini ufficiali, condotte da un lato del commissario Cercaire, dall’altro dal commissario Rabdomant e dagli ispettori Van Thian e Pastor. Si viene così a scoprire che tutto sembra ruotare intorno a un giro di droga per vecchietti. Ed è in seguito a quest’intuizione che la giornalista Julie Corrençon, anche lei impegnata in un’inchiesta per un reportage, finisce per coinvolgere la famiglia Malaussène, con il risultato che Benjamin finirà per rivestire, per l’ennesima volta, il consueto ruolo di capro espiatorio ideale…
Commento: È il secondo romanzo del ciclo Malaussène, uscito a due anni di distanza da Il paradiso degli orchi (con la O minuscola: vedi oltre), che lanciò Pennac nell’Olimpo degli scrittori contemporanei più popolari. È un noir, piuttosto sui generis e assai indicativo dello stile (riconoscibilissimo) del suo autore: Pennac costruisce, infatti, una storia fosca, una vera e propria fiaba nera (come indicano esplicitamente il titolo e il finale) in cui non mancano le asprezze (tra poliziotti corrotti, trafficanti di droga privi di scrupoli e efferati crimini), ma il tutto si fonde alle vicissitudini della strampalata famiglia Malaussène, con, tra gli altri, la madre sempre incinta, Thérèse tutta intenta a prevedere il futuro, e Benjamin, sorta di maschera tragicomica, vessato dalla sua datrice di lavoro ma capace, come sempre, di cavarsela (e di salvare anche il suo amore per Julie). Se si accetta il gioco di registri, non si può che apprezzare la fantasia narrativa dell’autore e la lettura ne risulta senz’altro piacevole e anzi persino brillante; eppure resta sempre il sospetto che i personaggi restino un po’ sulla carta, come macchiette o fumetti a cui Pennac non vuole far fare il salto nella vita vera della letteratura, specie di quella di genere che, com’è noto, non perdona: il risultato è che persino i più brutali omicidi sembrano finti e non è irragionevole aspettarsi che i morti resuscitino da un momento all’altro (qualcosa del genere, in effetti, accade davvero), come per i personaggi dei cartoni animati di Looney Tunes.
GIUDIZIO: **½

Divier Nelli – IL GIORNO DEGLI ORCHI (2017)
Di cosa parla: Nella provincia fiorentina, la sedicenne Aurora ha imparato a servirsi della sua bellezza per sedurre coetanei e adulti e ottenere quello che vuole. Con due suoi amici decide di creare falsi profili on line per adescare e poi ricattare pedofili. All’inizio il piano ha successo, finché il gioco non si trasforma in un incubo…
Commento: Quando le figure retoriche danno alla testa. Orco, con la O maiuscola, era uno dei nomi con cui i Romani chiamavano il dio degli Inferi. Per facile traslato, dunque, gli orchi, con la O minuscola o con la O maiuscola, sono diventati i cattivi per eccellenza delle fiabe, dove spaventano davvero e in genere finiscono male. Il più famoso è quello che vuole mangiarsi Pollicino e i suoi fratelli nella fiaba di Perrault, tradotta in italiano anche da Collodi che ribattezzò Pollicino con il nome di Puccettino; ma ne esistono anche versioni scritte dai fratelli Grimm, senza Orco, però, e da Tolstoj. È quindi ragionevole che anche dalle nostre parti gli orchi (o gli Orchi) non manchino; nelle Fiabe italiane di Italo Calvino, anzi, si legge la storia di Pulcino, che è una sorta di versione salentina di Pollicino: l’orco di turno, che qui si chiama Nanni-Orco, è persino sposato con Nanna-Orca, che però ha una pessima opinione del marito e fa di tutto per salvare i poveri innocenti. Non stupisce che la scarsa fantasia della peggiore prosa giornalistica non abbia saputo, negli anni, scovare titoli più adatti che quelli delle fiabe per descrivere i peggiori criminali di cui vengono forniti tutti i particolari in cronaca. La metafora per cui gli orchi sono i pedofili può già irritare nei titoli dei giornali, ma in letteratura è – sia consentito dirlo – un crimine. Basterebbe questo a squalificare un romanzetto privo di struttura, inesistente sul piano letterario, prevedibilissimo. Se non fosse che agli imperdonabili difetti sul piano della trama – e non è poco per un romanzo che aspirerebbe a essere un thriller – si aggiunge una rappresentazione degli adolescenti e della provincia italiana che non risparmia nessuno degli stereotipi del caso.
GIUDIZIO: °

PRE-TESTI, DIVAGAZIONI
E SPUNTI MINIMI
Una ragazza che vive in un cottage isolato nella campagna inglese insieme al padre si ritrova, a causa della temporanea assenza del genitore, a fronteggiare da sola una coppia di ladri intenzionati a penetrare nella casa per rubare il portafoglio pieno di soldi affidato alla giovane da una ricca signora. Tra minacce e bestemmie, i due malviventi fanno di tutto per poter mettere le mani sul bottino, ma non hanno fatto i conti con la risolutezza e l’astuzia della donna, determinata a difendere ad ogni costo i beni lasciateli in custodia, nonché la stessa dimora. È la trama de Il cottage nero, racconto lungo di Wilkie Collins, amico e collaboratore di Dickens, padre del poliziesco, autore capace di creare, intorno a un archetipo tipicamente fiabesco (la vicenda del racconto è la stessa del lupo e dei tre porcellini), una storia che, pur nella sua brevità, fa leva sulla suspense per proporre il ritratto di un’eroina in pericolo nell’Inghilterra vittoriana. Un concentrato di luoghi comuni della tensione destinato a sicuro e solido avvenire, anche al cinema e alla tv.
Come dimostra il caso di Wilkie Collins, il modello della fiaba (nera, come tutte le fiabe che si rispettino) ha grande fortuna nella letteratura ottocentesca: merito del clima romantico o forse, più prosaicamente, della necessità di tenere desta l’attenzione del lettore, diventato a tutti gli effetti consumatore di storie. Lo sapeva bene Robert Louis Stevenson, che scrisse (per febbrile impulso ma anche per le insistenze degli editori, che avevano i loro comprensibili interessi) alcune delle più inquietanti storie nere di tutti i tempi ma si dedicò a lungo anche alla stesura di favole, raccontini brevi o brevissimi, che oscillano tra la fiaba e l’apologo filosofico. Retaggio anche di una passione per le storie di paura contratta – così raccontano le cronache – fin dall’infanzia, complici i racconti della buonanotte della bambinaia Alison Cunnigham, di cui sempre Stevenson serbò un tenero ricordo.
Wilkie Collins (1824-1889) Robert Louis Stevenson (1850-1894)
Testi citati
Wilkie Collins – IL COTTAGE NERO (1857)
Robert Louis Stevenson – FAVOLE (1896)