Testi, pre-testi, divagazioni e spunti minimi intorno a libri letti, riletti, sfogliati
A cura di Roberto Mandile
PUNTATA 118
GIOVANI DI PROVINCIA
Storie di ventenni tra tormenti, inquietudini, insofferenze
Beppe Fenoglio – LA PAGA DEL SABATO (1969)
Di cosa parla: Ettore ha fatto il partigiano in guerra, ma ora in tempo di pace, a ventidue anni, non è ancora capace di rassegnarsi alla normalità di una ordinaria vita lavorativa. Nonostante le insistenze dei suoi genitori che non comprendono la sua insofferenza, sfugge all’opportunità, procuratagli dal padre, di trovare un impiego presso la locale fabbrica della cioccolata, per darsi ad affari più loschi e redditizi con Bianco, un altro ex partigiano. Altrettanto inquieta è la relazione con la giovane fidanzata Vanda. Quando sarà costretto a cambiare vita, le cose non saranno così semplici…
Commento: Tra le prime opere ad essere scritta, già alla fine degli anni Quaranta, e tra le ultime a essere pubblicata (vide la luce postuma a causa del rifiuto espresso da Elio Vittorini, allora direttore all’Einaudi, nonostante il parere positivo di Italo Calvino e Natalia Ginzburg), è un romanzo che rivela l’enorme debito di Fenoglio nei confronti della letteratura americana. È anche un romanzo nel quale non è difficile riscontrare elementi autobiografici: l’inquietudine di Ettore, partigiano come Fenoglio, è senz’altro quella di una generazione che, sopravvissuta alla guerra, si ritrovò alle prese con la costruzione, materiale e morale, di una normalità tutta da inventare e da conquistare. Ma, siccome Fenoglio era, fin da giovane, un grande scrittore, la storia ha l’andamento di una tragedia per l’ineluttabilità con cui la vicenda si dipana. In ogni caso per l’autore l’opera era frutto di una “cotta neoverista” poi superata. Giudizio un po’ ingeneroso, considerando l’asciuttezza dello stile, che terrà sempre Fenoglio lontano dai difetti più tipici di tanta prosa italiana, non solo del dopoguerra.
GIUDIZIO: ***
Georges Simenon – LA FATTORIA DEL COUP DE VAGUE (1939)
Di cosa parla: Jean è un bel ragazzo di ventotto anni e bella è anche la sua vita: cresciuto dalle zie Hortense e Émilie, che lo coccolano e un po’ lo viziano, lavora, come tutti nella zona in cui abita (la regione che si affaccia sulla spiaggia del Coup de Vague), nella mitilicoltura e, tra la motocicletta nuova e gli amici con cui passa le serate a giocare a biliardo, attrae tutte le ragazze. Quando però una di loro, Marthe, figlia dell’ex sindaco del paese, rimane incinta, le sue certezze sembrano crollare. A risolvere la questione interviene zia Hortense, che conosce il medico giusto e vi porta la giovane per l’intervento del caso. Ma le cose non vanno come dovrebbero e Jean deve sposare Marthe, che, sempre più malata, trascorre le giornate chiusa in casa, nelle mani delle zie, tanto zelanti da diventare opprimenti anche agli occhi dello stesso Jean…
Commento: Il romanzo è innanzitutto il ritratto riuscitissimo di un pezzo di provincia francese (la storia è ambientata nei dintorni di La Rochelle), in cui si esalta l’abilità di Simenon nel tratteggiare i personaggi, tutti – anche quelli minori – ben definiti. Il protagonista, Jean, è il prototipo del ragazzo che, come cullato nell’inconsapevolezza dalle comodità di un mondo chiuso e apparentemente tranquillo, in cui nulla sembra mai accadere al di fuori della ripetizione delle solite abitudini, si ritroverà, suo malgrado, a crescere e a fare i conti con la sua stessa identità. Ma, nella memoria del lettore, si imprimono con forza anche e forse soprattutto le figure delle zie di Jean, che, con le loro ambiguità e i misteriosi moventi del loro modo di fare, sono in realtà le austere e persino inquietanti custodi delle tradizioni, in una perfetta ma infida sintonia con l’immutabilità del paesaggio e della natura circostanti. Il “coup de vague”, l’ondata che si abbatte sulla vita di Jean, è un’immagine quanto mai efficace intorno a cui l’autore costruisce con un senso del ritmo perfetto un racconto che procede, con il passare delle pagine, con la stessa fatalità con la quale la violenza del mare colpisce la terraferma.
GIUDIZIO: ***½
PRE-TESTI, DIVAGAZIONI
E SPUNTI MINIMI
Di giovani inquieti, insofferenti, in preda a varie e più o meno definite angosce esistenziali è piena la storia della letteratura. Il primo esempio che viene in mente, per restare in ambito italiano, potrebbe essere quello di Cecco Angiolieri, che non solo bramava di essere fuoco per ardere il mondo ma si spingeva fino a esprimere il desiderio di diventare morte per andare da suo padre e da sua madre. Ma si tratta, come è ormai chiaro, di un ironico e compiaciuto gioco letterario e non di un serio proposito.
Poiché, però, uno stato d’animo ci suona tanto più familiare quanto più ci sembra vicino, ecco che il Novecento ci pare il secolo adatto per l’angoscia, giovanile e non solo. Tra le tante espressioni letterarie, e restando sempre in Italia, ci limitiamo a due casi.
Il primo, per il quale dichiariamo la nostra assoluta predilezione, è Totò Merùmeni, alter ego del più provinciale (nel senso più elogiativo possibile) dei nostri poeti: Guido Gozzano. Ecco una sintesi del suo ritratto, con esplicito invito a recuperare la poesia per intero:
“Totò ha venticinque anni, tempra sdegnosa,
molta cultura e gusto in opere d’inchiostro,
scarso cervello, scarsa morale, spaventosa
chiaroveggenza: è il vero figlio del tempo nostro.”
È il giovane che non riesce a vivere, che ha visto deluse tutte le sue aspettative, a partire dall’amore (si deve accontentare di incontri clandestini, sul far del giorno, con la cuoca diciottenne, “fresca come una prugna al gelo mattutino”) e che passa le sue giornate nella sua “villa triste”, con una “ghiandaia rôca, un micio, una bertuccia che ha nome Makakita”, dedicandosi a scrivere “esili versi consolatori”:
“Perché la voce è poca, e l’arte prediletta
immensa, perché il Tempo – mentre ch’io parlo! – va,
Totò opra in disparte, sorride e meglio aspetta.
E vive. Un giorno è nato. Un giorno morirà.”
Il secondo esempio, di tutt’altro genere (sul quale, sul piano squisitamente letterario, nutriamo qualche perplessità), è il protagonista del romanzo epistolare di Natalia Ginzburg Caro Michele: tutto ruota intorno alle vicende, ambientate negli anni Settanta, di un ventitreenne d’estrazione borghese che, in preda a non meglio precisate inquietudini, si allontana dalla famiglia, e in particolare dalla madre, e dalla patria. Pubblicato dieci anni dopo Lessico familiare,il romanzo più famoso dell’autrice, è un’accorata riflessione sulla difficoltà di trovare le parole per ridefinire gli spazi del privato, diventato, nel frattempo, pubblico. In mezzo c’è stato il Sessantotto che ha fatto esplodere le insofferenze giovanili e ha elevato l’angoscia esistenziale a problema collettivo, a fenomeno sociale, contribuendo peraltro a cancellare gli ultimi residui di quella vita provincia che Pasolini (il più provinciale dei nostri scrittori, e non nel senso più elogiativo possibile) rimpiangeva già da tempo.
Testi di riferimento
Guido Gozzano – TOTÒ MERÙMENI, in “I colloqui” (1911)
Natalia Ginzburg – CARO MICHELE (1973)