Testi, pre-testi, divagazioni e spunti minimi intorno a libri letti, riletti, sfogliati
A cura di Roberto Mandile
PUNTATA 134
ANTICA INGHILTERRA
Club onorati, vecchie dimore, storie di conquiste e desideri di fuga
Dorothy L. Sayers – LORD WIMSEY E IL MISTERO DEL BELLONA CLUB (1928)
Di cosa parla: L’esclusivo Bellona Club, a Londra, vanta tra i suoi soci, tutti distinti gentiluomini, anche il novantenne generale Fentiman. Si trova lì pure la sera in cui Lord Peter Wimsey, invitato da un vecchio amico, entra per la prima volta nel circolo; tutti pensano che l’anziano eroe di guerra stia sonnecchiando comodamente adagiato nella sua solita poltrona, ma in realtà l’uomo è morto. Da quanto tempo? La questione sembra di nessuna importanza, anche perché l’evento pare del tutto naturale, se non fosse per la scoperta della morte della sorella del generale, Lady Dormer, avvenuta lo stesso giorno. Per una questione di eredità è indispensabile chiarire chi dei due sia deceduto prima, e così Lord Wimsey inizia a indagare. E la verità destinata a venire a galla è assai meno tranquillizzante…
Commento: Dorothy L. Sayers è l’anti-Agatha Christie? Le due dame del giallo inglese hanno senz’altro diversi punti di contatto, a partire dall’esordio negli anni Venti, passando per la predilezione per un certo tipo di trame e di personaggi, nonché per gli investigatori dilettanti (la raffinatezza di Lord Peter Wimsey, però, è tutta britannica, più composta e distaccata rispetto a quella continentale, più eccentrica, più narcisistica, più buffa, di Hercule Poirot). Le vere differenze tra Sayers e Christie sono da rintracciarsi altrove: la prima è un’intellettuale, laureata a Oxford, studiosa di letteratura medievale (e traduttrice di Dante, tra l’altro), e anche poetessa e drammaturga; la sua incursione nel giallo, limitata a una dozzina di romanzi e poco altro, non ha paragoni con la dedizione assoluta al genere dell’inventrice di Miss Marple. Ma – quel che più conta – la scrittura di Dorothy L. Sayers è levigata, ricca, rotonda, laddove Agatha Christie è stata spesso accusata di una certa noncuranza stilistica, al limite della sciatteria. Eppure, a rileggere questo romanzo, ciò che parrebbe stile si rivela ben presto il suo contrario: una leziosità verbosa, che gioca a tirare le cose per le lunghe e finisce per sedare l’interesse del lettore (la scoperta del crimine tarda ad arrivare e le indagini sono interminabili). Se Agatha Christie talvolta è sottotono per mancanza di ispirazione (ma laddove questa la soccorre – e per nostra fortuna lo fa spesso – si apprezzano l’asciuttezza della sua pagina, la secca precisione delle sue descrizioni e soprattutto dei suoi dialoghi), con Dorothy L. Sayers, quando la trama non gira a dovere come in questo caso, il rischio vero è quello dello sbadiglio. A dimostrazione che in letteratura la forma è il contenuto, certo, ma la forma senza un contenuto è noia o, peggio, presunzione.
GIUDIZIO: *½

Alan Bennett – GENTE (2012)
Di cosa parla: Dorothy Stacpoole, anziana e aristocratica signora, vive insieme alla sua amica Iris in una antica dimora di campagna nello Yorkshire. Sua sorella June, arcidiacono, ha già preso contatto con il National Trust che acquisirebbe la casa per farne un luogo di interesse turistico. Ma Dorothy non è d’accordo e preferisce, quando le si presenta l’occasione, accettare l’offerta di un produttore cinematografico per girare, nelle stanze del palazzo, un film porno…
Commento: È possibile conciliare la storia, la tradizione, la veneranda conservazione del passato con la società contemporanea che, tutta votata al profitto, non può fare a meno di trasformare in fonte di guadagno ogni cosa su cui metta le mani? O, come scrive lo stesso Bennett nell’introduzione a questa sua spassosa e arguta commedia, come contrastare il marketing a cui ormai pare non potersi sottrarre nessun luogo o, persino, nessun oggetto che abbia un qualche interesse storico o artistico? La critica dell’autore non è, al solito, sul piano della morale, ma su quello del gusto, anche se la satira, quando funziona, riesce a castigare i costumi attraverso la messa in scena dei paradossi, dei controsensi, dei cortocircuiti di contraddizioni in cui si dibatte la società. “La cosa più difficile – scrive sempre Bennett – è capire i motivi della crescente maleducazione nei comportamenti pubblici, del gusto amaro della vita pubblica”. In fondo, il cinismo è sempre più sdoganato, o forse, come lucidamente chiosa Dorothy nel finale, più semplicemente “quel che è perduto è perduto, e non si ritrova. Quel che è andato è andato, e non torna indietro”. Verità in sé banale, ma capace, proprio nella sua facilità, di illuminare l’indifferenza con cui oggi guardiamo al passato e di smascherare, come a teatro, la finzione che si nasconde dietro il frenetico interesse con cui sembriamo interessati a preservarlo.
GIUDIZIO: ***

PRE-TESTI, DIVAGAZIONI
E SPUNTI MINIMI
“Non possiamo dire con esattezza, come è naturale quando si tratta di genti barbare, se coloro che primi abitarono la Britannia furono indigeni o immigrati […]. È, tuttavia, probabile, per chi consideri la cosa in generale, che i Galli abbiano occupato la vicina isola. Si possono, infatti, qui riconoscere i loro riti e le loro credenze religiose; il linguaggio non vi è molto diverso; riconosciamo la stessa audacia nel cercare i pericoli, e la stessa paura nel ritirarsi di fronte ad essi, allorché si sono presentati. I Britanni, tuttavia, mostrano una maggior fierezza, come coloro i quali non sono ancora sfibrati da una lunga pace; noi sappiamo che anche i Galli avevano dato di sé magnifica prova nelle guerre, mentre più tardi, quando con la pace s’insinuò anche l’inerzia, con il valore militare si spense per essi anche la libertà. Così avvenne anche a quei Britanni che una volta erano stati vinti; gli altri rimangono quali furono i Galli”.
I Britanni, sostiene Tacito, sono probabilmente Galli immigrati. Con buona pace della storia a venire – chissà se Giovanna d’Arco lo sapeva – le origini della popolazione che abitò la Britannia all’epoca dei Romani, i quali faticarono parecchio a domare l’isola (e ci riuscirono solo in parte), sono da ricondurre agli stessi antenati dei Francesi. L’antica Inghilterra – ma gli Angli dovevano ancora occuparla e dare il nome alla regione meridionale – è paradossalmente vittima delle mire imperialistiche dei conquistatori, le stesse mire che la porteranno, secoli dopo, a costruire il più grande e duraturo impero mondiale, con propaggini in tutti i continenti: il linguaggio – per riprendere le parole dello storico latino – non sarà molto diverso, dagli Stati Uniti all’India, dal Sudafrica all’Australia.
Milleottocento anni più tardi, sarà la penna inquieta di John Keats a vagheggiare un viaggio al contrario di quello che portò i Romani a occupare la Britannia: via dalla felice Inghilterra, l’approdo dei sogni per il poeta diventano i cieli italiani. La poesia fu pubblicata nel 1817; tre anni dopo il medico consiglierà a John, malato di tisi, di trasferirsi proprio in Italia, per trarre profitto dal clima. Nel nostro paese trascorrerà solo quattro mesi prima di morire a Roma, venticinquenne.
Felice è l’Inghilterra, e al suo verde innanzi
Dovrei contentarmi, non cercare
Altri venti fuori di quelli che soffiano
Pei suoi alti boschi, insieme a nobili romanzi.
Eppure, sento io talvolta un desiderio
Di cieli italiani, e dentro mi struggo
Di sedere su un’Alpe come su un trono,
E lì il mondo fuggir, e del mondo il suono.
Felice è l’Inghilterra, dolci le sue figlie ingenue,
La cui grazia tenue mi basta,
Come le loro bianche braccia, quando in silenzio stringono:
Pure, spesso, tutto ardo di vedere bellezze
Dallo sguardo più profondo, d’udirne il canto,
E con loro vagabondare sopra le acque d’estate.

Testi citati
Publio Cornelio Tacito – AGRICOLA – traduzione di Bianca Ceva (I secolo)
John Keats – FELICE È L’INGHILTERRA – traduzione di Silvano Sabbadini (1817)