Testi, pre-testi, divagazioni e spunti minimi intorno a libri letti, riletti, sfogliati
A cura di Roberto Mandile
PUNTATA 151
RAGAZZE E DONNE DI SICILIA
Tra dolori, ingiustizie, soprusi maschili… con un ritorno alle origini della letteratura italiana
Giovanni Verga – STORIA DI UNA CAPINERA (1871)
Di cosa parla: 1854. Maria ha diciannove anni: entrata in convento a Catania a sette anni, è costretta a uscirne a causa di un’epidemia di colera. Trascorre così un periodo insieme alla sua famiglia, composta dal padre, dalla matrigna, dalla sorellastra Giuditta e dal fratellastro Gigi, nella casa di campagna di Monte Ilice. Sono giorni spensierati, lontani dalla soffocante e rigida vita claustrale. La conoscenza e la frequentazione di Nino, il figlio dei Valentini, loro vicini di casa, sono l’occasione per sperimentare l’insorgere di un nuovo sentimento, ma l’amore, ricambiato, per il ragazzo, dovrà cedere, con il finire dell’epidemia, alla necessità di tornare in convento…
Commento: Verga prima di Verga. Per gli amanti delle etichette è narrativa filantropico-sociale, un filone che spopolò a metà Ottocento: si prendevano storie, temi e ambientazioni d’attualità (tipicamente vicende di sfruttamento, costrizione, ingiustizia), si calcava la mano, con una buona dose di paternalismo, sui risvolti lacrimevoli e il successo era assicurato: così fu, in effetti, anche per il trentenne Verga. Questo, che è anche l’unico romanzo epistolare dello scrittore siciliano, è peraltro vagamente ispirato a un episodio autobiografico. Il primo amore dell’adolescente Giovanni fu infatti un’educanda del convento in cui era monaca una sua zia: egli la conobbe proprio durante l’epidemia di colera del 1854 (la malattia afflisse la Sicilia più volte, a ondate: se ne parla anche ne I vicerè di De Roberto). Per altri versi, la storia di Maria ha almeno un precedente letterario illustre nella Gertrude de I promessi sposi. Verga, però, facendo raccontare il tutto in prima persona dalla diretta interessata, può da un lato esasperare il patetismo della vicenda, dall’altro eliminare ogni reminiscenza di ironia manzoniana. Senza contare che non siamo nella Milano spagnola del Seicento, ma nella Sicilia di metà Ottocento: le monacazioni forzate non sono cioè una delle più usuali pratiche dell’Ancien Régime, ma l’espressione di un’arretratezza sociale degna di essere denunciata. E se, sotto questo aspetto, Verga anticipa le sue opere più note – manifesto, secondo tutte le storie della letteratura, del verismo –, è altrettanto innegabile che, sul piano stilistico, impera un gusto tardoromantico per l’espressione enfatica dei sentimenti che è ancora assai lontano dalle innovazioni linguistiche delle novelle e dei romanzi successivi. Verga prima di Verga, insomma, sarebbe stato solo un (dimenticabile?) scrittore di successo: per sua, e nostra, fortuna, di lì a breve rinnegherà quasi tutto per diventare il grande autore che ancora conosciamo.
GIUDIZIO: **½

Luigi Pirandello – L’ESCLUSA (1901-1908)
Di cosa parla: In un piccolo paese della Sicilia si consuma il dramma di Marta Ajala, che il marito, Rocco Pentàgora, ha cacciato di casa dopo averla sorpresa nell’atto di leggere un biglietto mandatole da uno spasimante, Gregorio Alvignani. La donna è innocente, non avendo commesso adulterio, ma la punizione che le viene comminata trova l’appoggio anche del padre di lei, il quale si rinchiude nella sua stanza rifiutando di vedere la figlia e lasciandosi morire. La rovina travolge anche la madre e la sorella di Marta: si trasferiranno tutte e tre a Palermo, dove Marta proverà a mantenere quel che resta della famiglia facendo la maestra in un collegio, finché l’Alvignani non si rifarà vivo…
Commento: Il primo romanzo di Pirandello, scritto nel 1893 sotto l’influenza di Luigi Capuana (a cui è dedicato) e rivisto per la pubblicazione in volume nel 1901 e nel 1908, presenta più di un motivo di interesse. Non è solo un saggio delle capacità narrative dello scrittore siciliano, ma ne delinea già l’originalità in rapporto al verismo dominante al momento della composizione. È, innanzitutto, la storia di un’ingiustizia. E di un’ingiustizia che colpisce una donna, vittima della morale corrente e dei pregiudizi maschilisti che la condannano a una condizione di esclusione sociale senza rimedio. Ma non è difficile cogliere la statura eroica di Marta rispetto agli altri personaggi del romanzo. La sua grandezza, che è fatta della lucidità con cui affronta le conseguenze della situazione in cui viene a trovarsi suo malgrado, risalta sia in rapporto alle altre donne del romanzo, la madre e la sorella (Marta è l’unica che tenta la via del riscatto attraverso il lavoro), sia e soprattutto rispetto agli uomini, dal marito, imbelle e facile all’ira prima e piagnucoloso poi, al padre che, privo di senso della realtà e incapace di resistere al (presunto) scandalo, non si fa scrupolo di travolgere, nella sua rovina, l’intera famiglia, fino all’Alvignani, che sacrifica sull’altare dell’ambizione politica personale la cura dei guai che la sua condotta ha ingenerato. Il quadro della società, chiusa nei suoi preconcetti, è ancora quello dei racconti e dei romanzi veristi, ma Pirandello, approfondendo i risvolti psicologici della vicenda soprattutto dal punto di vista di Marta, insinua l’idea che all’origine dell’esclusione ci sia la scissione tra la realtà e la sua rappresentazione: non importa a nessuno, se non alla vittima stessa, quale sia la verità dei fatti – ossia che l’adulterio non si sia consumato – mentre tutti sono disposti ad accettare che una donna sia sottomessa al volere altrui. La stessa ribellione di Marta si ferma ben prima di sfociare nella pazzia a cui la sua condizione potrebbe condurla e, come si capisce dal finale, è semmai l’accettazione, dolorosa ma inevitabile, della realtà a garantirle la sopravvivenza. Ma se la coscienza della crisi resta a metà facendo sì che il dramma si risolva nell’ambito di una lacerazione non del tutto consumata, è pur vero che, in modo paradossale, la verità inizialmente negata si è alla fine affermata. E Marta pare l’unica in grado di capirlo.
GIUDIZIO: ***

PRE-TESTI, DIVAGAZIONI
E SPUNTI MINIMI
Secoli di cultura patriarcale, di dominio del maschio sulla “femmina”, di tradizioni oppressive fatte di un mitico culto della virilità e di arcaici riti di gelosia (già messi in burla da Vitaliano Brancati, in letteratura, e da Pietro Germi, al cinema) hanno fatto della Sicilia il luogo (comune) per eccellenza di una certa idea della donna.
E dire che, alle origini della storia delle lettere patrie, proprio dalla Sicilia si è affacciata anche una possibilità diversa. Nel contrasto di Cielo d’Alcamo, uno dei testi più antichi in volgare siciliano, il dialogo tra un uomo e la ragazza cui egli rivolge le sue profferte amorose, pur nello sbilanciamento tra i due (lei alla fine cederà), lascia intravedere il punto di vista femminile. È una concessione possibile all’interno del genere comico, cui il componimento appartiene, laddove nella poesia più seria, anch’essa di ispirazione trobadorico-cortese, c’è spazio solo per la prospettiva dell’innamorato. Così, ad esempio, la donna abbandona la rigidità iniziale e esprime il suo consenso al matrimonio:
«Poi tanto trabagliàsti[ti], fac[c]ioti meo pregheri
che tu vadi adomàn[n]imi a mia mare e a mon peri.
Se dare mi ti degnano, menami a lo mosteri,
e sposami davanti da la jente;
e poi farò le tuo comannamente».
Ma c’è di più: siciliana è, forse, la più antica poetessa italiana. Si chiama Nina, e altro non sappiamo (forse era messinese, forse palermitana); abbiamo però due sonetti a suo nome, che testimoniano la sua conoscenza della scuola poetica siciliana. Uno di essi è in relazione con un altro sonetto di un poeta toscano, Dante da Maiano, che aveva manifestato la propria ammirazione per i versi di lei e anche per la sua bellezza, dichiarandosene innamorato pur senza conoscerla direttamente. Nell’altro, Nina lamenta il tradimento dell’amato, paragonato a uno sparviero che, benché sia stato allevato con cura da lei, è ormai fuggito in un altro giardino, da un’altra donna:
Tapina me che amava uno sparviero,
amaval tanto ch’io me ne moria;
a lo richiamo ben m’era maniero,
ed unque troppo pascer nol dovia.
Or è montato e salito sì altero;
assai più altero che far non solia;
ed è assiso dentro a un verziero,
e un’altra donna l’averà in balìa.
Isparvier mio, ch’io t’avea nodrito;
sonaglio d’oro ti facea portare,
perché nell’uccellar fossi più ardito.
Or sei salito siccome lo mare,
ed hai rotto li geti e sei fuggito,
quando eri fermo nel tuo uccellare.

Testi citati
Cielo d’Alcamo – ROSA FRESCA AULENTISSIMA (XIII secolo)
Nina Siciliana – TAPINA ME CHE AMAVA UNO SPARVIERO (XIII secolo)
LEGENDA RECENSIONI
Sia per i libri che per i film, adotto nel giudizio sintetico il sistema Mereghetti, che va da 0 a 4 stelline: a 0, ovviamente, i giudizi più negativi, a 4 quelli più positivi, con tutti i possibili gradi intermedi…