Testi, pre-testi, divagazioni e spunti minimi intorno a libri letti, riletti, sfogliati
A cura di Roberto Mandile
PUNTATA 183
L’ORRORE DELL’IMMAGINAZIONE
Incubi, allucinazioni, immagini terrificanti: spaventarsi di ciò che si vede e soprattutto di ciò che si racconta
Thomas de Quincey – SUSPIRIA DE PROFUNDIS (1845)
Di cosa parla: A partire da alcuni suoi incubi, l’autore ricostruisce l’origine stessa dell’orrore nel cervello e riflette sulla condizione umana, tanto misera da produrre appunto sogni dolorosi. Come quello della dea latina Levana, che in un’apparizione onirica si è presentata accompagnata dalle tre Signore del Dolore…
Commento: Vedi alla voce “allucinazioni oniriche”. Thomas de Quincey, scrittore di culto, teorico e cantore dello “sregolamento dei sensi” caro a Rimbaud (ma suo ammiratore, su tutti, fu niente meno che Charles Baudelaire), è il “mangiatore d’oppio” che, dopo aver confessato la sua dipendenza dalla droga – cominciò a usarla, a quanto pare, per curare certe nevralgie – torna in questo libello sul luogo del delitto (L’assassinio come una delle belle arti è un’altra sua celebre opera) per parlare dei propri sogni. Non solo e non tanto del loro contenuto, che pure, per quello che si riesce a intuire dalla prosa allusiva e continuamente divagante, devono essere stati parecchio terribili. De Quincey, infatti, sostiene che il cervello umano è un palinsesto, nel quale “infiniti strati di idee, immagini, sentimenti” si sono stratificati gli uni sugli altri, pronti a riaffiorare appunto nel sogno. Anticipando così Freud (L’interpretazione dei sogni apparirà solo a fine secolo, nel 1899, e da lì l’inconscio diventerà un concetto familiare), l’autore suggerisce, tra le righe dense e cupe del suo scritto (non facilissimo, in verità, e piuttosto criptico, a tratti), come il sogno sia sempre una visione dolorosa: così l’apparizione di Levana, la dea romana protettrice dei neonati, è stata per de Quincey l’occasione di fare la conoscenza delle tre Signore del Dolore, che la accompagnavano. Sono la Mater Lacrimarum, la Mater Suspiriorum e la Mater Tenebrarum: se ne ricorderà Dario Argento per alcuni suoi film. Come a dire che l’orrore ha sempre origine dentro di noi, nel profondo delle nostre inquiete notti, nel riconoscimento riflesso, autentico e liberato, della sofferenza che ci abita e che il sogno, come le droghe, fanno affiorare in tutta la loro vivida e terribile portata. Chiedere per conferme ad altri scrittori esperti di sostanze allucinogene, come Philip Dick o William Burroughs, gli scrittori che delle “allucinazioni oniriche” hanno dato probabilmente l’espressione letteraria più alta.
GIUDIZIO: **½

H.P. Lovecraft – IL COLORE VENUTO DALLO SPAZIO (1928)
Di cosa parla: Inviato a fare sopralluoghi in una vallata del New England, un uomo viene colpito dal mistero che avvolge una regione che tutti, nella zona, chiamano “la landa maledetta”. È una zona in cui non cresce neppure un filo d’erba, desolata e polverosa. Dai vecchi del luogo si viene a sapere che tutto è cominciato, anni e anni fa, quando un meteorite cadde nei pressi della fattoria dei Gardner. La pietra, che attirò l’attenzione di un gruppo di ricercatori universitari giunti sul posto per esaminarla, dimostrò fin da subito strane proprietà: composta di metalli sconosciuti sulla terra, sembrava rimpicciolirsi giorno dopo giorno. Ma, con il trascorrere del tempo, gli effetti diventarono ben più gravi: dal deterioramento del sapore dei frutti alla fioritura di strane piante, tutta la natura sembrò assumere un colore mai visto, chiaramente alieno, finché anche i membri della famiglia Gardner cominciarono a mostrare comportamenti a dir poco anomali…
Commento: “Il posto non fa bene all’immaginazione e di notte non porta sogni riposanti”. Così si scrive un racconto! Un racconto (lungo, non lunghissimo) che si rispetti, ancor più di un romanzo, non deve protrarsi a vuoto, non deve divagare, ma soprattutto non deve sprecare parole (la citazione riportata, che troviamo all’inizio del racconto, è un esempio mirabile in tal senso). Dire che Lovecraft è stato un maestro dell’horror rischia di offuscare un dato di fondo, ossia che l’horror deve la sua fortuna al cinema (e anche da questo racconto sono stati tratti diversi film) in virtù del potere immediatamente terrorizzante delle immagini ma ha le sue radici nella letteratura, dove ogni effetto è affidato alla forza più subdola e ambigua della parola. Ecco perché i racconti dell’orrore più riusciti sono quelli in cui c’è qualcosa di sfuggente, di volutamente indefinibile, indescrivibile, ineffabile: così, ad esempio, si presenta il colore di Lovecraft, il quale, sorta di emanazione del meteorite, è all’origine dei guai che colpiscono la zona in cui la pietra è caduta. Non solo, infatti, il colore non è in nessun modo assimilabile ai colori conosciuti sulla Terra (e l’autore si guarda bene dal darci un’idea anche vaga in questo senso), ma esso è appunto l’unica manifestazione senza dubbio minacciosa della “cosa maligna” venuta dallo spazio. La grandezza dello scrittore statunitense consiste precisamente nell’aver dato corpo, in anticipo sui tempi, a molti degli incubi che avrebbero costituito, nei decenni a venire, l’altra faccia del sogno americano.
Il suo horror fantascientifico, che non è però propriamente distopico, si fonda sulla distruzione dall’interno della normalità quotidiana, nella quale l’affiorare di segni inquietanti, disturbanti, indecifrabili è già racconto. Si spiega così il fatto che nel nostro testo tutta la vicenda sfumi, nel ricordo di chi la riferisce, nella leggenda. E la scelta di Lovecraft di un doppio registro narrativo (il narratore principale è l’uomo arrivato, da estraneo, nella vallata, ma la storia del colore venuto dallo spazio gli viene riferita dal vecchio Ammi Pierce, un tempo amico dei Gardner) fa sì che l’orrore diventi appunto racconto. Tutto si perde in un passato sufficientemente lontano (“Una volta c’era una strada…”) da non essere ricostruibile con certezza. Perché, in fondo, Lovecraft sa bene che l’horror esiste da sempre, che, da quando ha cominciato a raccontare, l’uomo ha raccontato storie che fanno paura.
GIUDIZIO: ****

PRE-TESTI, DIVAGAZIONI
E SPUNTI MINIMI
Il 7 marzo 1975 usciva nelle sale italiane Profondo rosso di Dario Argento. Del successo del film, all’epoca stroncato o ignorato dalla critica ma ben accolto dal pubblico, testimonia la lunga fama che, da cinquant’anni, lo accompagna. È un’opera che, crediamo, illustra benissimo che cos’è l’orrore, al cinema ma non solo: il film è lunghetto (un paio d’ore buone), abbastanza sgangherato quanto a sceneggiatura (certe scene e soprattutto certi dialoghi rasentano il ridicolo), eppure è un capolavoro. Per almeno due ragioni, che giustamente ne hanno decretato la gloria nel tempo: la colonna sonora (non solo il celebre motivo portante, ma anche la filastrocca: autori ufficiali i Goblin e Giorgio Gaslini, più i primi che il secondo, a sentire il regista, che peraltro avrebbe voluto i Pink Floyd) e i colori, l’effetto visivo complessivo. Profondo rosso dimostra come l’orrore agisce sui nostri nervi prima ancora che sul nostro intelletto, sulla nostra sensibilità più che sul raziocinio. È per questo che ogni visione riesce ancora a terrorizzarci, anche se sappiamo già chi è l’assassino. Anche se vorremmo provare a smontare le incoerenze, le assurdità che, sul piano strettamente logico, inzeppano la trama, ogni volta che sentiamo quella musica, ogni volta che vediamo quel sangue così rosso, siamo colti alla sprovvista e rinunciamo a fare le pulci: rabbrividiamo e basta, rassegnati alla mannaia che cala, al manichino che ridacchia e all’immancabile nenia d’accompagnamento.
Se al cinema l’orrore si può dunque costruire con pochi, ben selezionati, elementi visivi o musicali, tanto ossessivi e martellanti da rendere lo spettatore inerme, inchiodato alla sua poltrona, nella letteratura, al contrario, dove è la sola parola a doversi sobbarcare il peso di far sobbalzare il lettore, bisogna saper giocare per sottrazione, per allusione. Un bravo scrittore deve saper tenere nascosto qualcosa, più che presentare le cose nel dettaglio, confidando sul fatto che nulla spaventa di più del non detto, dell’immaginato.
Il confine tra realtà e sogno è al centro, ad esempio, del racconto Diario nella neve di Fritz Leiber, scrittore americano sul quale è facilmente riconoscibile anche l’influsso di Lovecraft. L’orrore è, in qualche modo, implicito fin dall’inizio nell’ambientazione (immaginaria, a quanto abbiamo capito e vogliamo credere): Lone Top, uno dei posti più isolati e freddi del Montana. Il narratore, che tiene un diario della sua esperienza, ha accettato l’invito dell’amico John e lo ha raggiunto nella sua casa, dove, lontano da tutte le distrazioni, potrà finalmente dedicarsi a scrivere il proprio libro, una storia di mostri alieni. La calma e la quiete del posto sono però messe presto a repentaglio: prima l’ascolto di un programma radiofonico piuttosto singolare e poi la comparsa di strani disegni nel ghiaccio e sui vetri della casa fanno nascere nei due amici un’inquietudine destinata a crescere giorno dopo giorno. Si tratta di cose reali o di allucinazioni? E soprattutto, com’è possibile per il lettore tracciare un confine chiaro quando l’unica sua fonte è il diario del narratore stesso?
Un interrogativo analogo ci coglie – per tornare dalle nostre parti – alla lettura di un altro bellissimo racconto di uno scrittore tra i più grandi (e dimenticati) di casa nostra: La palla da tennis di Mario Soldati. Anche qui c’è un narratore interno che, insieme a un amico, Guido, racconta di quella che dovrebbe essere solo un’innocua passeggiata nel parco di una vecchia villa (siamo sulla montagna ligure, nello spezzino), nella quale i due, insieme ad altri amici, si trovano in qualità di ospiti della proprietaria, la signora Fiorini, Mascardi da ragazza. Ma Mascardi (o Moscardi?) non era anche il cognome di quel senatore lucchese che, nel giorno della sua morte, pare sia stato visto a Roma? È una storia curiosa, a dir poco, ma c’entra qualcosa con la strana partita di tennis, un doppio misto, a cui i due amici hanno assistito durante la loro camminata nel parco, al di là di un’altissima rete? Eppure, a giudizio della proprietaria, quello che i due amici sostengono di aver visto non è possibile, perché il campo non esiste più da anni: abbandonato a sé stesso, esso è ridotto a un terreno incolto e selvatico. Per dissipare ogni dubbio, non resta che convincere anche gli altri invitati a fare una capatina da quelle parti. Perché, appunto, non c’è orrore più grande di ciò che abbiamo (solo) immaginato…

Testi citati
Fritz Leiber – DIARIO NELLA NEVE (1947)
Mario Soldati – LA PALLA DA TENNIS (1961)
LEGENDA RECENSIONI
Sia per i libri che per i film, adotto nel giudizio sintetico il sistema Mereghetti, che va da 0 a 4 stelline: a 0, ovviamente, i giudizi più negativi, a 4 quelli più positivi, con tutti i possibili gradi intermedi…