LECTIO BREVIS /198

Testi, pre-testi, divagazioni e spunti minimi intorno a libri letti, riletti, sfogliati

A cura di Roberto Mandile

PUNTATA 198
STUDENTI PER SEMPRE
Al liceo o all’università, ma anche alle elementari o alle medie, tra sogni, aspirazioni, incertezze e anche pericoli: e su tutto la nostalgia del tempo che passa

Dorothy L. Sayers – IL COLLEGE (1935)

Di cosa parla: Harriet Vane, affermata scrittrice di romanzi polizieschi con un passato tumultuoso (è stata prosciolta da una ingiusta accusa di omicidio), viene invitata dallo Shrewsbury College di Oxford, di cui è stata allieva, per una festa di fine anno accademico. Incuriosita dalla possibilità di rivedere, a distanza di anni, alcune ex compagne di studi, Harriet accetta. Ma durante la sua permanenza si verificano alcuni episodi spiacevoli: si tratta, innanzitutto, di una serie di lettere anonime dal tono minaccioso indirizzate a diverse docenti, e di un disegno osceno, rinvenuto in un cortile. Sembra utile condurre una piccola indagine interna e Harriet pare la persona più indicata a incaricarsene. Quando, però, altri eventi inquietanti sconvolgeranno la pace del college, sarà necessario ricorrere a un aiuto esterno: e a chi affidarsi se non a Sir Peter Wimsey, amico e pretendente di Miss Vane?

Commento: Senza dubbio, l’ambiente universitario si presta al giallo. Intanto, è un luogo chiuso, una sorta di microcosmo a sé; è quindi il teatro ideale, anche dal punto di vista architettonico (con tutti quegli spazi a disposizione, tra aule, cortili, stanze, biblioteche, laboratori…), perché rivalità, inimicizie, rancori, alimentati anche dal clima di competizione connaturato al mondo accademico, covino, per trovare prima o poi sfogo nel crimine. Bisogna dunque riconoscere che l’intuizione di Dorothy L. Sayers di ambientare un romanzo giallo in un college femminile è azzeccatissima. E, in effetti, la caratterizzazione dell’ambiente, che l’autrice conosceva benissimo (a Oxford, dove era nata, si era laureata con lode, tra le prime donne, in lingue moderne e letteratura medievale), è resa alla perfezione.

Meglio, ad esempio, di quanto farà più di vent’anni dopo Agatha Christie in uno dei suoi romanzi meno brillanti, Macabro quiz. Eppure, quello che non convince del libro della Sayers è che c’è troppo e, al tempo stesso, troppo poco per poter parlare di un poliziesco riuscito. Partiamo dal “troppo poco”: la trama gialla in sé è carente, nonostante l’idea di fondo e la spiegazione del movente funzionino. Ci sentiamo, in questo caso, di sottoscrivere una delle regole per scrivere romanzi polizieschi messe a punto da S.S. Van Dine: “Ci dev’essere – ingiungeva l’inventore di Philo Vance – almeno un morto in un romanzo poliziesco e più il morto è morto, meglio è. Nessun delitto minore dell’assassinio è sufficiente. Trecento pagine sono troppe per una colpa minore. Il dispendio di energie del lettore dev’essere remunerato!”. Qui, non solo il morto non c’è, mentre abbondano i crimini minori (spesso più spiacevoli che in sé dannosi, peraltro), ma Dorothy Sayers mette a dura prova la pazienza del lettore, trascinandolo per più di quattrocento pagine in un dedalo di chiacchiere, dotte, per carità, spesso dottissime, ma che perlopiù si ripetono, come se all’autrice premesse, innanzitutto, dare conto della vivacità intellettuale di un ambiente accademico interamente femminile.

E, per quanto interessanti possano essere, anche sul piano storico, le osservazioni sull’emancipazione delle donne attraverso gli studi, la vera trama che alla scrittrice pare stare a cuore è quella che riguarda la relazione amorosa, tormentata ma destinata al lieto fine, tra Harriet Vane e Peter Wimsey che, nella conclusione del romanzo, decidono di convolare a nozze. Altra infrazione, aggiungiamo, a una delle regole di Van Dine (“Non ci dev’essere una storia d’amore troppo interessante. Lo scopo è di condurre un criminale davanti alla Giustizia, non due innamorati all’altare”). In fondo, Dorothy Sayers, troppo colta per il poliziesco (genere che praticò per necessità materiali e che abbandonò appena queste vennero meno), denuncia, qui in modo ancora più smaccato che altrove, le sue alte ambizioni letterarie. Peccato per la mancanza di misura. L’università di Oxford farà da sfondo anche a Il mistero del terzo miglio (1983) di Colin Dexter, altro allievo illustre dell’ateneo della città inglese: il romanzo è decisamente più riuscito (e pure più breve).

GIUDIZIO: **

Alan Bennett – GLI STUDENTI DI STORIA (2004)

Di cosa parla: In un liceo inglese, negli anni Ottanta, otto studenti frequentano un corso per l’ammissione all’università. Il preside, desideroso di dare lustro alla scuola, vorrebbe che i ragazzi venissero accettati negli atenei più prestigiosi, a Oxford o a Cambridge. E così decide di affiancare alle lezioni del veterano professor Hector, del tutto indifferente alla questione e cultore della letteratura, il più giovane professor Irwin, insegnante di storia, con il compito di preparare gli allievi all’esame di selezione. Insieme ai due, c’è l’unica donna della scuola, la professoressa Lintott. Gli studenti, tra lezioni più o meno convenzionali, dibattiti con i loro insegnanti sul valore della cultura e della storia, intrecceranno tra loro relazioni fatte di amicizia ma anche di attrazione che non possono o non riescono a rivelare…

Commento: Leggere una commedia teatrale può essere un’esperienza straniante. Ma, siccome fin dalla tragedia greca, siamo abituati alla lettura come sostituto della rappresentazione, anche una commedia recente, andata in scena con un buon successo, può essere un banco di prova interessante per testare quanto il teatro sappia ancora essere, com’è sempre stato nella tradizione occidentale, innanzitutto un teatro di parola. Bennett, nella lunga introduzione al testo, offre un’infinità di appigli autobiografici, sia sul versante studi (lui che, da figlio di un macellaio, vinse una borsa di studio a Oxford, dove si laureò proprio in storia) sia su quello più personale (l’omosessualità è una sorta di Leitmotiv della commedia e il personaggio di Posner è dichiaratamente l’alter ego dell’autore stesso).     

Pur nella complessità della costruzione scenica, che fatalmente sulla pagina si perde, Bennett offre l’ennesima prova di bravura nell’evitare i luoghi comuni più triti che, quando si parla di scuola sono sempre in agguato: convinto, per nostra fortuna (lo dice sempre nell’introduzione), che i personaggi siano più importanti dei temi, lo scrittore inglese, attingendo a piene mani dalla sua esperienza (che lo ha visto per lunghi anni anche nel ruolo di ricercatore e docente universitario), esprime tutto il suo disincanto per un’idea di istruzione che deve o vuole tenere insieme una visione alta, nobile, disinteressata di cultura – incarnata da Hector, personaggio a sua volta, però, macchiato da debolezze al limite dell’immoralità – e una prospettiva utilitaristica, in cui il sapere deve servire a qualcosa – è la visione di Irwin, che tuttavia finisce per perdere di vista la verità a favore delle capacità istrioniche (le suggerisce agli studenti per superare l’esame d’ammissione e le praticherà lui stesso nelle sue performance da divulgatore televisivo). È un’ironia venata della nostalgia alla quale tutti fatalmente cediamo nel ricordare la nostra giovinezza quella che anima i due atti della commedia. Perché, com’è chiaro dal finale – nel quale, come accade in certi film, si rivela il destino futuro di ciascuno degli studenti – alla fine anche l’importanza della scuola può essere relativizzata, a patto, però, di riconoscere che il caso gioca un ruolo decisivo nelle vite di tutti. Cosa che, come ben sanno gli studenti, si impara appunto studiando la storia… 

GIUDIZIO: ***

PRE-TESTI, DIVAGAZIONI
E SPUNTI MINIMI

“Portano sempre berretti rossi, braghe alla ussara, fumano per strada, e non studiano mai”.

Lo studente che non studia è un luogo comune da sempre, come testimonia Gustave Flaubert.
Ma, a voler ampliare o aggiornare il dizionario che lo scrittore francese elaborò nella seconda metà dell’Ottocento, ne verrebbe fuori una biblioteca. Gli studenti, intesi come sottocategoria dei giovani (ma con la democratizzazione della scuola ormai i due insiemi sono sempre più coincidenti), alimentano facilmente la tentazione degli adulti di cedere alla generalizzazione. In negativo, ma anche in positivo, come se ci si specchiasse nell’esperienza dello studio con un misto di diffidenza e di nostalgia.
E così, per un verso affidiamo alla scuola e all’università la speranza di una palingenesi collettiva, di un rinnovamento della società, dall’altro le accusiamo di frustrare inclinazioni, aspirazioni, sogni individuali, sacrificandole sull’altare della omologazione, del conformismo, dell’egualitarismo imposto dall’alto.

A mettere in luce le contraddizioni di questa visione strabica, ci soccorre la penna di un grande scrittore di genere, Richard Matheson, in un suo racconto, Bevi il mio rosso sangue, che prende le mosse proprio dall’ambito scolastico: “Quando si riseppe del suo tema, la gente dell’isolato decise che senza dubbio alcuno Jules era pazzo”. Il tema è quello svolto a scuola (traccia: “La mia aspirazione”) da un bambino che vuole essere un vampiro. Bambino strano, Jules, fonte di angoscia per i genitori fin dalla nascita (la prima parola l’aveva detta a cinque anni ed era stata: “Morte”), cultore maniacale di Dracula, letto di nascosto e imparato a memoria. Poi la lettura in classe, di fronte alla maestra che prova inutilmente a fermarlo, del famigerato tema, eloquente fin dall’incipit (“Da grande voglio essere un vampiro”). Le ambizioni di Jules, nonostante i tentativi di frustrare le sue aspirazioni, finiranno naturalmente per realizzarsi, ma soltanto dopo l’incontro con un pipistrello vampiro.

Agli occhi dei genitori, al netto degli eccessi di aspettative, l’osservazione dei figli-studenti è anche occasione per misurare, attraverso i cambiamenti accelerati tipici dell’infanzia, il passare del tempo.
Occasione di cui approfitta Luciano Erba che, con la sua abituale sensibilità, coglie in dettagli apparentemente banali della vita scolastica della figlia i segnali di cambiamenti che non riguardano solo lei, ma soprattutto lui, il padre:

a Francesca

potrebbe essere l’ultima volta che li vedo
mi dici dei tuoi compagni di classe
che ti hanno fatto far tardi
oggi che è finita la scuola
dovrei sgridarti e sto invece ad ammirare
i tuoi quaderni ben ordinati
(con qualche sbavatura d’inchiostro
di dita sudate di giochi di giugno)
in autunno andrai alle superiori
e questa tua bella scrittura un po’ tonda
potrebbe essere l’ultima volta che la vedo.

Testi citati
Gustave Flaubert – “Studente”, in “Dizionario dei luoghi comuni” – traduzione di Franco Rella (1881)
Richard Matheson – BEVI IL MIO ROSSO SANGUE (1958)
Luciano Erba – GLI ADDII, in “Il prato più verde” (1977)