LECTIO BREVIS / 199

Testi, pre-testi, divagazioni e spunti minimi intorno a libri letti, riletti, sfogliati

A cura di Roberto Mandile

PUNTATA 199
AMERICANI NEL MONDO
Dal Vietnam al Regno Unito, passando per il Messico; in missione per conto del governo, per vacanza o per affinità culturali

Graham Greene – L’AMERICANO TRANQUILLO (1955)

Di cosa parla: Saigon, anni Cinquanta. Durante la prima guerra di Indocina, nel Vietnam francese il giornalista inglese Thomas Fowler, cinquantenne, viene a sapere della morte di Alden Pyle, un giovane americano che è stato inviato nel paese asiatico per conto del suo Paese allo scopo di introdurre una “Terza Forza” tra i colonialisti francesi e i comunisti locali. Per Fowler, che ha una relazione con Phuong, una bellissima ragazza del posto, è l’occasione di rievocare gli eventi delle ultime settimane, a partire appunto dall’arrivo di Pyle. La rivalità con quest’ultimo, innamoratosi fin da subito della stessa Phuong, ha segnato nel profondo l’esistenza del giornalista, intrecciandosi tragicamente con i terribili eventi da cui è colpito il Vietnam…

Commento: C’è sempre qualcosa di sfuggente nei romanzi di Greene. E quel qualcosa ha a che fare con un problema di facilità: l’autore inglese è talmente abile nel catturare l’attenzione del lettore, avvolgendolo nelle spire di una scrittura concreta e precisa, che finisce per alimentare in lui il dubbio di essersi solo perso. Così, alla conclusione della lettura, ecco farsi strada l’impressione che la storia sia scivolata via troppo in fretta perché potesse davvero voler dire qualcosa di più. E però, l’inganno sta tutto qui, in questa veste da romanzo di genere (ma quale genere poi?) che, sì, contiene anche la tragedia della Storia e il dramma intimo di un triangolo amoroso impossibile, ma quasi camuffati, intrecciati come sono ai fatti (quei fatti che, a detta dei critici, renderebbero la scrittura di Greene troppo “giornalistica”) necessari a far procedere la trama.

A voler capovolgere la prospettiva, tuttavia, la bravura straordinaria dell’autore si dispiega in tutta la sua evidenza. Perché è chiaro che è il punto di vista di Fowler, il narratore, a offuscare in primis la nostra stessa percezione della sostanza di cui è fatto il romanzo: non c’è spazio, infatti, per nessuna lettura ideologica quando ci si trova immersi dentro la storia che egli ci sta raccontando. Una storia doppiamente sbagliata: nella guerra vera (questa sì ideologica) che dilania un Paese al centro di interessi predatori contrapposti e nella guerra amorosa (anch’essa non scevra di smanie di conquista coloniale) che vede l’uno contro l’altro due uomini, separati da tutto (età, nazionalità, opinioni e visione della vita), il punto è che nessuno è innocente (nemmeno Phuong) e la tragedia risiede appunto nell’impossibilità di trovare una conciliazione che non passi attraverso la violenza. Anche l’indifferenza o l’impassibilità da cronista di Fowler non è, infatti, esente da ombre, perché la morale che egli, in qualche modo, incarna è a sua volta incomprensibile, anzi “indecidibile” e “imprecisabile” (dobbiamo gli aggettivi a Domenico Scarpa, attentissimo lettore di Greene). È un sussulto di umanità a muovere Fowler o un mero interesse personale? “Si può stare sicuri – citiamo sempre Scarpa – che Greene gongolasse di aver scritto un romanzo così equivocabile”.

E alla fine, richiuso il libro, ecco che ci assale quel senso di smarrimento di cui si diceva, accresciuto dalla lucidità con cui l’autore anticipa molti degli snodi che la storia di quel Paese (e in generale di quell’area geografica, ma non solo) si sarebbe incaricato, di lì a qualche decennio, di rendere ulteriormente e drammaticamente chiari. Ecco, cioè, che quel che resta – al di sotto della superficie – è la sensazione che Greene ci abbia di nuovo menato per il naso: con la scusa di raccontarci una vicenda appassionante, ci ha lasciato nell’impossibilità di schierarci, di scegliere, di giudicare. Il che, riconsiderata la materia stessa del romanzo, conferma, per l’ennesima volta, come i grandi scrittori non sono quelli che lanciano messaggi o dipingono affreschi ad ogni pagina, ma quelli che sanno contrabbandare storie avvincenti ingannando i loro lettori con una facilità narrativa dietro la quale si affastellano, in realtà, dubbi, dilemmi, ambiguità d’ogni sorta.

GIUDIZIO: ***½

Colin Dexter – IL GIOIELLO CHE ERA NOSTRO (1991)

Di cosa parla: Il “Tour Città Storiche dell’Inghilterra” ha radunato un gruppo di benestanti e anziani turisti americani. Ma non è un giro come tanti: tra i partecipanti, infatti, c’è anche Laura Stratton, che porta con sé un antico gioiello, il Puntale di Wolvercote, ricevuto in eredità dal primo marito. La donna ha deciso di farne dono all’Ashmolean Museum di Oxford, una delle tappe del tour. Ma, poco dopo essere giunti nella città universitaria, il gioiello viene rubato e Laura muore, nella sua stanza d’albergo, fulminata da un infarto. La tappa oxoniense, però, è funestata da un altro decesso: poco dopo, infatti, il professor Theodore Kemp, curatore delle antichità anglosassoni del museo, viene ucciso. Le indagini metteranno a dura prova l’ispettore Morse, soprattutto perché trovare un collegamento tra i vari fatti appare fin da subito più complicato del previsto…

Commento: “Se per qualche inspiegabile motivo mi blocco un pochino, sa che cosa faccio? […] Smetto subito di pensare al problema. Poi, quando torno a guardarlo, il problema è completamente svanito!”. Parola dell’ispettore Morse che, poco dopo – siamo già a due terzi del libro – precisa che “il nostro problema è trovare il collegamento tra il furto del gioiello e l’assassinio di Kemp”. Dexter è, al solito, bravissimo a intrecciare i fili e a complicare la trama delle sue storie. E occorre dire che, in questo caso, forse una qualche difficoltà si avverte nel districarsi tra le pieghe della vicenda, a omicidio avvenuto, quando veniamo sfidati a distinguere tra i vari personaggi (soprattutto i turisti americani) e a raccapezzarci con i loro alibi. O, forse, è proprio la scrittura di Dexter, con la sua raffinatezza mai leziosa, ad avvolgerci nelle sue spire facendoci magari distrarre dai punti essenziali, dagli indizi cruciali, quelli che, come da tradizione, arrivati alle pagine finali, ci faranno esclamare: “Ma certo! Come abbiamo fatto a non capirlo prima?”.

Le pagine finali, appunto, cioè la soluzione, sono il vero punto di forza del romanzo: l’autore si dimostra qui più che mai il più degno allievo di Agatha Christie. E se, come recensione comanda, non possiamo diffonderci in dettagli, possiamo però dire che i colpi che Dexter affonda nella ricostruzione del caso sono tra i migliori che ci sia capitato di leggere non solo nella sua opera, ma – esageriamo – nel pur vasto panorama del giallo tradizionale. Per la ricchezza e l’esattezza dei dettagli (e gli indizi ci sono eccome!), l’ampia spiegazione che l’ispettore Morse fornisce al cospetto dei sospettati riuniti alla bisogna, anche qui secondo la migliore tradizione, ripaga ampiamente delle pagine in cui abbiamo seguito, non senza magari una certa fatica, le indagini. D’altronde, se lo stesso Morse, prima dell’illuminazione finale, aveva imboccato una strada sbagliata, seguendo una falsa pista, vuol dire che il caso era decisamente intricato. O, più probabilmente, che Colin Dexter conosce troppo bene il suo mestiere per non sapere che una buona idea è metà dell’opera per uno scrittore di gialli: l’altra metà la fa la sua capacità di confondere le acque.

GIUDIZIO: ***

PRE-TESTI, DIVAGAZIONI
E SPUNTI MINIMI

Joseph e Marie sono una coppia americana in vacanza in Messico. Fanno tappa in una cittadina e decidono di fare visita, nel cimitero locale, alle “mummie”, centoquindici corpi di morti, conservati in catacombe, secondo la tradizione locale. Marie ne resta profondamente turbata, al punto da chiedere al marito di lasciare al più presto il paese. Joseph la accontenta, ma, al momento di mettere in moto la macchina, questa non vuol saperne di partire. Per riparare il guasto ci vuole tempo e, nonostante Marie sia impaziente di andarsene, i giorni passano e la sua angoscia cresce. E con essa anche quella del lettore di questo bel racconto (si intitola Avanti il prossimo!) di Ray Bradbury, che la frontiera tra gli Stati Uniti e il Messico la conosceva bene, avendo vissuto quasi tutta la sua vita in California.

Qui, come nel romanzo di Colin Dexter, a far attraversare il confine patrio è il motivo più innocuo e più spensierato: una vacanza. A fare il resto, ossia a capovolgere le premesse, trasformando il soggiorno messicano dei due coniugi, ci pensa la scrittura di Bradbury, che gioca essenzialmente sul contrasto di caratteri tra marito e moglie, lui freddo e razionale, lei suscettibile e impressionabile. Ma, come chiarirà il finale, tutto si rivelerà funzionale al crescere della tensione fino a un colpo di scena forse non imprevedibile, ma senz’altro efficacissimo nell’economia complessiva della storia.

Non per vacanza ma per una sorta di ampia vocazione culturale lascerà gli Stati Uniti, dove era nato e aveva vissuto fino a ventidue anni, Thomas Stearns Eliot: i suoi studi a Harvard lo avevano tanto avvicinato e avvezzato alla letteratura europea (tra l’altro lesse Dante in italiano) da rendere del tutto naturale il suo trasferimento in Europa, prima a Parigi e poi, stabilmente, nel Regno Unito. È dunque del tutto naturale trovare nel suo corpus poetico anche alcuni testi scritti in francese: in uno di questi, significativamente, Eliot traccia una sorta di ideale autobiografia mettendo in luce appunto le diverse nazionalità che hanno contribuito alla sua formazione e alla sua identità di “americano nel mondo”:

In America, professore;
In Inghilterra, giornalista;
È a grandi passi e con molto sudore
Che seguirete a fatica la mia pista.
Nello Yorkshire, conferenziere;
A Londra, un po’ banchiere,
Me la dovrete pagare assai cara la testa.
Vado a Parigi a farmi pettinare
Il casco nero da menefreghista.
In Germania, filosofo
Sovreccitato dall’Emporheben
All’aria aperta del Bergsteigleben;
Corro continuamente qua e là
A colpi vari di tra là là
Da Damasco a Omaha.
Celebrerò la mia festa
In mezzo a un’oasi d’Africa
Vestito d’una pelle di giraffa.

Mostreranno il mio cenotafio
Lungo le coste brucianti del Mozambico.  

Testi citati
Ray Bradbury – AVANTI IL PROSSIMO! (1954)
Thomas Stearns Eliot – RIMESCOLANZA ADULTERA DI TUTTO, in “Poesie (1920)” – traduzione di Roberto Sanesi (1925)

LEGENDA RECENSIONI
Sia per i libri che per i film, adotto nel giudizio sintetico il sistema Mereghetti, che va da 0 a 4 stelline: a 0, ovviamente, i giudizi più negativi, a 4 quelli più positivi, con tutti i possibili gradi intermedi…

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*1/2
NON GIUDICABILE con i sistemi ìclassiciî di voto
PESSIMO
QUASI PESSIMO
BRUTTO
BRUTTINO
 
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**1/2
***
***1/2
****
ACCETTABILE
DISCRETO
BUONO
MOLTO BUONO
CAPOLAVORO