LECTIO BREVIS / 201

Testi, pre-testi, divagazioni e spunti minimi intorno a libri letti, riletti, sfogliati

A cura di Roberto Mandile

PUNTATA 201
PICCOLI E GRANDI GUAI IN FAMIGLIA
Tra doti e testamento, conviene o no farsi una famiglia?

Carlo Goldoni – LA FAMIGLIA DELL’ANTIQUARIO, O SIA LA SUOCERA E LA NUORA (1749)

Di cosa parla: Palermo. L’armonia della famiglia Terrazzani è messa a dura prova dal conflitto tra la suocera Isabella, nobile consorte del conte Anselmo e madre di Giacinto, e la nuora Doralice, moglie di quest’ultimo e figlia del mercante Pantalone. La ricca dote che Doralice ha portato al marito ha risollevato le sorti della famiglia, ma Isabella non ha accettato la provenienza sociale più bassa della giovane. Come se non bastasse, Anselmo è interessato solo a sperperare tutti i soldi per soddisfare la sua passione antiquaria, ma la sua dabbenaggine lo rende facile preda del servitore Brighella che lo truffa con la complicità dell’amico Arlecchino. A mediare tra suocera e nuora ci provano tutti (e la serva di casa, Colombina, approfitta del dissidio per il proprio tornaconto), ma tutto sembra inutile…

Commento: Carmelo Alberti (in una preziosa introduzione alle commedie di Goldoni per la casa editrice Salerno) ha scritto che “fin dall’inizio, ne La famiglia dell’antiquario, sembra soffiare un vortice tempestoso, che snatura la fisionomia dei protagonisti: è il vento della pazzia e della stravaganza”. Tutti i personaggi, eccetto (almeno in parte) Pantalone, difettano di senso pratico. Non ne hanno Isabella e Doralice, che si fanno dispetti infantili e si mostrano offese come e peggio dei bambini, incapaci di riconoscere l’una la necessità di fare i conti con l’altra. Se la contessa, che non vuol sentirsi dare della vecchia, è sorda a chiunque le faccia notare che cacciare di casa la nuora comporterebbe la rovina della casa, dal canto suo Doralice, che non accetta di essere lei ormai la nuova padrona, non ne vuol sapere di riconoscere alla suocera, non foss’altro che per mera educazione, il ruolo che le spetta. Meno di tutti ha senso pratico il conte Anselmo, personaggio un po’ macchiettistico, tutto compreso nell’orizzonte del suo fanatismo per le antichità (o le anticaglie, per meglio dire) che però non si accompagna a nessuna vera competenza, tanto da diventare vittima delle truffe di Brighella e Arlecchino.

La pazzia, la stravaganza prende così l’aspetto della (possibile) distruzione della famiglia, ossia del patrimonio, con il risultato che, per salvare il salvabile, dovrà intervenire Pantalone, il quale, da mercante arricchito, è l’unico che abbia cognizione del valore del denaro. La commedia appare stravagante anche per altre ragioni: intanto per il finale, con il mancato accordo tra suocera e nuora, che Goldoni difese dalle critiche che gli vennero mosse in nome del realismo. Su questo punto, bisogna fare tuttavia chiarezza, perché, se, come riportano tutte le storie della letteratura, a Goldoni si deve una riforma del teatro che va appunto nella direzione del maggior realismo, il lettore moderno non può che ridacchiare di nascosto appena si accosti alla commedia e scopra che è ambientata a Palermo e alcuni personaggi sono maschere tipiche della commedia dell’arte, che, a differenza degli altri che parlano in italiano, si esprimono in dialetto veneziano! In realtà, il realismo goldoniano va valutato, proprio in relazione a questi elementi, nel contesto del teatro settecentesco: è lo stesso scrittore, in una sua prefazione, a spiegare come egli abbia voluto limitare le maschere legandole a una “parte studiata”, anziché lasciare loro la libertà di cui in genere godevano all’epoca e di cui spesso abusavano, perché pur di far ridere spesso “imbrogliavano la Scena e precipitavano la Commedia”.

Proprio in questa prospettiva, dunque, si deve riconoscere che il realismo si apprezza, al di fuori delle convenzioni, nella naturalezza dei dialoghi (quanto sono moderne, alla luce dei talk show televisivi, le liti tra personaggi che non si vogliono capire e si parlano addosso!), nella scelta del finale (la rappacificazione tra suocera e nuora – sosteneva Goldoni – non sarebbe stata “durevole” e dunque sarebbe suonata falsa) e nella rappresentazione dei caratteri, che certo, è un po’ di maniera, ma in fondo anche l’infantile esaltazione del conte Anselmo e la conseguente saccenteria di chi non ama essere contraddetto nemmeno da un esperto, l’“intendente di antichità” Pancrazio che, a un certo punto, viene convocato da Pantalone, non si può dire che suonino così aliene ai tempi nostri (basta un giretto sui social network per accorgersene). Piuttosto, sarebbe il caso di chiedersi cos’è rimasto della borghesia allora nascente, di cui è portavoce Pantalone, e della sua pragmatica razionalità in un’epoca in cui il buon senso pare merce sempre più rara. Forse la risposta è ancora quella che, quasi un secolo dopo Goldoni, Manzoni fornirà in merito alle credenze sulla peste e che ha il valore universale di un aforisma: in ogni epoca, potremmo dire, il buon senso c’è, ma se ne sta nascosto, per paura del senso comune.

GIUDIZIO: ***

Roger Scarlett – LA ZAMPA DEL GATTO (1931)

Di cosa parla: Martin Greenough ha invitato i suoi familiari nella sua villa nei dintorni di Boston in occasione del settantacinquesimo compleanno. Abituato da sempre a comandare, l’uomo vuole continuare a esercitare il controllo sui suoi numerosi nipoti, tutti dipendenti economicamente da lui, ma durante la cena comunica loro un’importante decisione che li riguarda da vicino: il cugino Mart – come tutti lo chiamano – ha deciso, infatti, di modificare il suo testamento. La notizia crea inevitabilmente scompiglio tra gli ospiti. Ma i festeggiamenti, che prevedono anche un piccolo spettacolo di fuochi d’artificio, saranno guastati da ben altro: poche ore dopo, Greenough viene trovato ucciso nel suo studio con un proiettile nel cranio. La finestra aperta e altri indizi lasciano credere che il colpo di pistola sia stato esploso dall’esterno, ma spetterà all’ispettore Kane sbrogliare la matassa…

Commento: Le scrittrici di gialli non mancano, e anche nella cosiddetta Golden Age del genere se ne segnalano di notevoli, a partire, naturalmente, dalla regina Agatha Christie. Non difettano poi le coppie di giallisti, dai cugini Dannay-Lee, in arte Ellery Queen, a Fruttero & Lucentini (che non solo gialli scrissero, anzi!, ma che al genere si dedicarono, per la nostra delizia, con risultati memorabili). Non sono rari, infine, nemmeno i casi di collaborazione occasionale tra due scrittori che hanno lavorato perlopiù da soli (un piccolo gioiello è Discesa fatale scritto a quattro mani da Carter Dickson, alias John Dickson Carr, e John Rhode) e si contano persino alcuni interessanti esperimenti di libri usciti dalla penna di un gruppo di autori (diversi sono, ad esempio, i romanzi dati alla luce, nel corso degli anni, dai membri del Detection Club di Londra, associazione di giallisti nata nel 1928). Eppure, di polizieschi firmati da una coppia di scrittrici fatichiamo a serbare memoria. Basterebbe questo a rendere i libri di Roger Scarlett una rarità. Dietro lo pseudonimo maschile si nascondono infatti Evelyn Page e Dorothy Blair, entrambe statunitensi: incontratesi presso una casa editrice di Boston, collaborarono, agli inizi degli anni Trenta, alla stesura di cinque gialli che ebbero buona accoglienza all’epoca per poi finire dimenticati.

In questo, che è il terzo ed era finora inedito in Italia, dimostrano una buona padronanza delle regole del genere, di cui sono sfruttati appieno alcuni elementi topici, a partire dalle figure della vittima, vecchio, ricco e piuttosto misantropo, e della coorte di parenti, giovani e perlopiù inetti, che lo circonda. Nulla di granché originale, certo, e lo stesso si può dire dell’ambientazione e degli snodi principali della trama (dal testamento modificato alle modalità misteriose del delitto, ampiamente annunciato, fino alle indagini, rigorose, e alla scoperta del colpevole, con tanto di doppio finale e conclusione a sorpresa). Eppure, non si può dire che la lettura deluda gli appassionati: tutto scorre, senza sussulti particolari, ma anche senza forzature o scorrettezze. Conoscere le sfumature dell’inglese può aiutare a interpretare il titolo.  

GIUDIZIO: **

PRE-TESTI, DIVAGAZIONI
E SPUNTI MINIMI

Fatti una famiglia! A giudicare dai casi letterari di cui abbiamo riferito, l’invito andrebbe preso con cautela. Anche perché, laddove i problemi della famiglia non derivino da gelosie, insofferenze e antipatie di vario genere, ben altri guai, di tutt’altra natura, potrebbero presentarsi. Lo testimonia, ad esempio, il commovente quadretto tratteggiato in questo sonetto da Giuseppe Gioachino Belli: contro la fame e il freddo, contro gli effetti concretissimi della povertà, è semmai il calore (non solo metaforico) offerto della mamma ai figli l’unico conforto possibile, il solo modo per salvare quel che resta del nome stesso di famiglia:

Quiete, crature mie, stateve quiete:
sì, fiji, zitti, ché mommò viè ttata.
Oh Vergine der pianto addolorata,
provedeteme voi che lo potete.

No, vviscere mie care, nun piaggnete:
nun me fate morì ccusì accorata.
Lui quarche cosa l’averà abbuscata,
e ppijeremo er pane, e mmaggnerete.

Si ccapìssivo er bene che vve vojjo!…
Che ddichi, Peppe? nun vòi stà a lo scuro?
Fijjo, com’ho da fà ssi nun c’è ojjo?

E ttu, Llalla, che hai? Povera Lalla,
hai freddo? Ebbè, nnun méttete llì ar muro:
viè in braccio a mmamma tua che tt’ariscalla.

Ma è poi possibile soddisfare il desiderio di fare famiglia evitando i guai che ne potrebbero derivare? Uno dei tentativi più spregiudicati, in questo senso, è quello che Marziale riferisce riguardo a un tale Quirinale (per capire a pieno l’epigramma giova precisare che, nel verso finale, il poeta latino non usa l’espressione abituale pater familias, che indicava appunto il capofamiglia, dal punto di vista giuridico, ma pater familiae, che vale, alla lettera, “padre della servitù”):  

Quirinale è convinto che non ci si debba sposare,
ma, poiché vuole avere figli, ha trovato il modo
di risolvere il problema: scopa le ancelle, riempiendo
la casa e la campagna di cavalieri nati schiavi in casa.
Quirinale è un vero padre di famiglia.

Testi citati
Giuseppe Gioachino Belli – LA FAMIJJA POVERELLA (1835)
Marziale – EPIGRAMMI I 84 – traduzione di Simone Beta (86 d.C.)

LEGENDA RECENSIONI
Sia per i libri che per i film, adotto nel giudizio sintetico il sistema Mereghetti, che va da 0 a 4 stelline: a 0, ovviamente, i giudizi più negativi, a 4 quelli più positivi, con tutti i possibili gradi intermedi…

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NON GIUDICABILE con i sistemi ìclassiciî di voto
PESSIMO
QUASI PESSIMO
BRUTTO
BRUTTINO
 
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**1/2
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***1/2
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ACCETTABILE
DISCRETO
BUONO
MOLTO BUONO
CAPOLAVORO