LECTIO BREVIS / 96

Testi, pre-testi, divagazioni e spunti minimi intorno a libri letti, riletti, sfogliati

A cura di Roberto Mandile

PUNTATA 96
CANTA CHE TI PASSA
Fascino e seduzione di cantanti, tra invidie, divismo e altri pericoli

Earl Derr Biggers – CHARLIE CHAN E IL CANTO DEL CIGNO (1932)

Di cosa parla: Dudley Ward ha avuto una stravagante idea: riunire in una casa sulle rive d’un lago, tra le montagne della California, la sua ex moglie Ellen Landini, celebre cantante lirica, insieme agli altri suoi tre ex mariti. Ha invitato anche Charlie Chan, ispettore della polizia di Honolulu in trasferta, a cui ha intenzione di affidare un incarico. Com’era facile immaginare, però, l’atmosfera si fa subito tesa e le cose precipitano nel giro di poche ore, quando la donna viene uccisa da un colpo di pistola…

Commento: Strana la carriera di Earl Derr Biggers, la cui fortuna è legata più che ai suoi libri, relativamente pochi, agli innumerevoli adattamenti cinematografici che da essi furono tratti nell’arco di una trentina d’anni circa, tra il 1918 e il 1948 (l’autore, nato nel 1884, morì nel 1933). Altrettanto curioso è che pressoché nessuno dei film ha resistito al tempo, salvo – e questa è forse la più significativa anomalia – la parodia che ha reso immortale il suo personaggio, l’investigatore sinoamericano Charlie Chan. In Invito a cena con delitto, girato nel 1976, è niente meno che Peter Sellers a interpretare il personaggio di Sidney Wang, ispirato appunto a Charlie Chan: a lui dobbiamo sentenze memorabili del genere “Domande come carta igienica vetrata. A lungo andare, molto irritante”. In questo libro, che è l’ultimo dei sei romanzi con la figura di Charlie Chan, si ritrovano, anche se in tono minore (l’ambientazione non è quella più abituale, alle Hawaii), gli elementi ricorrenti dei polizieschi di Biggers: storia sufficientemente solida, senza fronzoli e senza forzature, personaggi piuttosto stereotipati ma funzionali alla trama, e abbondanza di proverbi cinesi; cinese, per di più, è in questo caso anche Ah Sing, il fedele domestico del padrone di casa, Dudley Ward.

GIUDIZIO: **

Erica Arosio & Giorgio Maimone – JUKE-BOX (2018)

Di cosa parla: Milano, 1964. Il potente discografico Massimo Ferranti si rivolge all’avvocato Greta Morandi, sua vecchia amica, perché qualcuno lo sta ricattando. Ma, siccome sta per iniziare il Cantagiro e Ferranti sarà impegnato al seguito dei cantanti della sua scuderia, Greta e il suo socio Marlon lo accompagneranno nelle varie tappe su e giù per l’Italia nel tentativo di raccogliere informazioni utili a venire a capo della faccenda…

Commento: È il terzo romanzo di una serie che vede protagonisti Greta e Marlon e una delle due sottotrame si segue solo avendo letto le puntate precedenti. Il problema del libro, però, è che, per scrivere un romanzo giallo che sia anche il ritratto di un’epoca, bisogna essere in grado di conferire alla trama una solidità narrativa che, francamente, si fatica a rintracciare. Le storie che si intrecciano sono in sé fragili, tirate in lungo e soprattutto affidate a una polifonia di voci narranti caotica e a uno stile che eccede in sentimentalismo e didascalismo. L’impressione è che, al di là delle legittime ambizioni degli autori che pur non mancano (in un’intervista Maimone è arrivato a dire: “A noi stessi piace richiamare, con grande modestia, Fruttero e Lucentini, perché in effetti, un terreno comune ci può essere. Nel senso che noi ci siamo ispirati a loro anche per il disincanto leggermente ironico con cui narrano le loro avventure”), quel che non torna sia un malinteso concetto di stile: la leggerezza non è un tono di sorridente nostalgia, ma la capacità di azzeccare un aggettivo, un giro di frase, un taglio narrativo che sappiano evitare l’effetto olografia, sempre in agguato quando si vuole raccontare un’epoca che, già di per sé, è oggetto di facili mitizzazioni.    

GIUDIZIO: *½

PRE-TESTI, DIVAGAZIONI
E SPUNTI MINIMI

La musica come fenomeno pop, ossia popolare, non nasce nel Novecento. Un ruolo decisivo in questo senso l’hanno sempre avuto i cantanti, che, prima degli attori del cinema, sono stati i divi popolari per eccellenza. Già nel Settecento, agli albori della nascita della civiltà borghese europea, sono i cantanti a tenere il centro della scena in quel genere, il melodramma, che, insieme al romanzo, rappresenterà il consumo culturale più popolare nel corso del secolo successivo. Se ne accorse, tra gli altri, Carlo Goldoni, che nelle sue Memorie, scritte in francese in tarda età, ricorda un episodio della sua gioventù artistica (aveva studiato legge ma coltivava già la passione per il teatro), allorché – era il 1733 – a Milano si ritrovò una sera in un salotto ben frequentato, allo scopo di poter presentare la sua opera ai direttori degli spettacoli. E proprio da uno di questi, il conte Prata, si vedrà impartire una vera e propria lezione sulle alchimie del melodramma, che chiarisce bene i condizionamenti imposti ai compositori dal divismo dei cantanti e delle cantanti e convincerà il povero Goldoni a congedarsi (e, negli anni successivi, a rivolgere altrove le proprie ambizioni di scrittore di teatro):

“I tre personaggi principali del dramma devono cantare cinque arie ciascuno: due nel primo atto, due nel secondo e una nel terzo. La seconda donna e il secondo tenore non possono averne più di tre, e le parti minori devono accontentarsi di una o, al massimo, di due. Il poeta deve fornire al compositore della musica le diverse sfumature che costituiscono il chiaroscuro della musica e deve fare attenzione che due arie patetiche non si susseguano; bisogna distribuire, con la medesima precauzione, le arie di bravura, le arie d’azione, le arie di mezzo carattere, i minuetti e i rondò. Soprattutto, bisogna avere cura di non assegnare né arie appassionate, né arie di bravura, né rondò alle parti secondarie. Bisogna che quei poveretti si accontentino di quanto venga loro destinato; ed è loro vietato di farsi onore”.

Ma il divismo dei cantanti è figlio del fascino irresistibile che essi sono sempre riusciti a esercitare: il canto, fin dai tempi di Odisseo (cantavano le Sirene ma anche Circe) è sempre stato incanto, magia, prodigio inspiegabile, capace di agire – avrebbe detto Freud – a livello inconscio e prerazionale e, come tale, in grado dunque di avvincere e legare a sé l’anima dell’ascoltatore in una sorta di sortilegio paralizzante. Del potere persino distruttivo del canto è testimonianza una bellissima novella di Honoré de Balzac, Sarrasine: il protagonista omonimo è un giovane scultore francese che il narratore della vicenda rivede fugacemente una sera in una elegante festa da ballo in casa di ricchi banchieri parigini. Sarrasine è ormai “una creatura senza nome nel linguaggio umano, forma senza sostanza, essere senza vita, o vita senza azione”; un mostro, in altre parole. Ma come ha potuto ridursi così? Tutto si spiega con il folle innamoramento, avvenuto anni prima a Roma, dove il narratore lo aveva già conosciuto, per Zambinella, cantante d’opera che lo scultore aveva visto esibirsi a teatro; passione destinata però a trasformarsi in furore alla scoperta che dietro l’aspetto femminile si nascondeva, in realtà, un castrato. La novella, parte integrante del grande progetto della Comédie humaine, è un capolavoro di stile che si può leggere (ed è stata letta abbondantemente) in chiave psicanalitica, ma è soprattutto un fenomenale monito sui rischi di prendere l’arte troppo sul serio, specie quando imita con inquietante precisione la realtà.    

Testi citati:
Carlo Goldoni – MEMORIE, parte I, capitolo XXVIII, traduzione di Piero Bianconi (1787)
Honoré de Balzac – SARRASINE (1830)