Questo piccolo racconto partecipò, nel 2004, a un concorso dal titolo “Parole in volo”, classificandosi secondo. Mi piace, a volte, scrivere su un tema assegnato: è un utile esercizio per stimolare la fantasia… “imbrigliandola” allo stesso tempo in maglie concettuali (non eccessivamente strette)!
L’UOMO SOSPESO
“Non guardo mai il cielo troppo a lungo
perché poi il mondo mi sembra orribile”
(François Truffaut)
Faceva il venditore. Certo, la sua qualifica come da documento d’identità suonava assai meglio: Export Manager. Non che a lui importasse granché della qualifica di lavoro. Per la verità, sembrava sempre che non gli importasse di niente, e non perché fosse una persona scostante o arrogante. Al contrario, chi lo conosceva lo definiva dolce, magari timido, certamente riservato. In ditta, dove lavorava da più di dieci anni, nessuno ricordava di averlo mai sentito alzare la voce o lamentarsi in alcun modo. Tanti non ricordavano di averlo mai neanche sentito parlare. Egli era un mistero per tutti, ma non uno di quei misteri che catturano l’attenzione e impediscono di pensare ad altro. Era piuttosto uno di quei misteri che si scordano in fretta, che si spediscono con noncuranza in un recesso della mente per non pensarci più.
Ma ciò che rendeva eccezionale Leopold Cornwallis era il fatto che abitasse tra le nuvole. Noi viviamo per aria, amava ripetere. La nostra testa, il nostro cervello, non toccano propriamente terra. Le gambe li portano in giro, ma essi spaziano per l’aria, ad una quota bassa, certo, molto bassa…ma in chiave filosofica, che differenza fa?
Aveva tanto desiderato quel lavoro non perché gli interessasse particolarmente vendere macchine industriali per la fabbricazione del gelato, ma per l’opportunità che esso gli dava di volare. Leopold affrontava almeno tre viaggi transoceanici al mese, ed era l’unico dipendente della ditta a non lamentarsene mai.
Appena l’aereo si staccava da terra, una serenità sempre nuova di impadroniva di lui. Non poteva concentrarsi su niente in particolare, mentre era per aria. Si sentiva troppo bene. Quando poteva, guardava attraverso l’oblò le luci delle città, e le nuvole sottostanti, bucate dal velivolo in ascesa e miracolosamente superate in statura dall’ingegno umano; e il Sole, coi suoi raggi che mai gli parevano tanto taglienti come quando esso compariva al di là della coltre di nubi. Allora gli sembrava che il Sole fosse una bestia feroce appena liberata che, famelica, attacca chiunque le capiti a tiro. Ma egli non ne aveva paura.
Se invece l’aeroplano sorvolava qualche enorme, oceanica distesa d’acqua, o se la monocromatica notte giungeva a privarlo del panorama, Leopold chiudeva gli occhi, e in breve finiva per immaginare se stesso come l’aeroplano. Non era propriamente un sogno, era un’esperienza a metà tra l’onirico e il reale, una sorta di sogno indotto che per lui funzionava da medicina contro le angosce del mondo. E che si attivava invariabilmente ogni volta che si trovava in volo. Se ci provava in albergo, o nel suo appartamentino di Brick Lane, o in ufficio durante una pausa, non riusciva! Veniva fuori un pasticcio fatto di tuffi nel vuoto, di ricadute sul letto, di avvoltolamenti tra finte nubi di bambagia, finché una specie di grottesco regista non gridava “Stop!” e la scena s’interrompeva, distruggendo il magico incanto del volo, la sola cosa per la quale Leopold spasimasse.
Ogni volta che toccava terra e che in un aeroporto si presentava per il controllo dei documenti e la vidimazione del passaporto, cominciava la sua giornata recitativa. Allora Leopold indossava una maschera, e più tempo durava il periodo in cui era costretto a stare a terra, più egli s’immalinconiva. Ma non era, a ben vedere, propriamente malinconia. Era piuttosto una strana forma di paura, che lo prendeva con impressionante regolarità ogni volta che si trovava a camminare tra la gente, o inchiodato su una sedia, o in un ascensore, o in un supermercato…
– Ma insomma, Leopold, cerca di scuoterti, vivi la tua vita, sei un bel ragazzo, sei intelligente, si può sapere perché hai sempre paura di tutto?, ebbe a dirgli un giorno una sua collega.
Leopold la guardò senza tradire emozioni.
– C’è chi ha paura di volare, perché non deve esistere anche chi ha paura di stare a terra?, chiese.
(Febbraio 2004)