PARASITE di Joon-Ho Bong (Corea del Sud, 2019 – 132’)
Palma d’Oro a Cannes… Oscar al Miglior Film (primo caso di film premiato in questa categoria pur non essendo recitato in inglese)… Oscar al Miglior Film Straniero… Oscar alla Miglior Regia… Oscar alla Migliore Sceneggiatura Originale… Insomma, ci manca solo la beatificazione in vita del regista, per fare di questo film coreano (ma non di Kim-Ki Duk! Incredibile!) uno dei casi più eclatanti di “capolavoro annunciato”. Ora: sono sempre un po’ diffidente verso i “pluripremiati”. Voi direte: perché? Non ti fidi dei premi? Non ti fidi delle Giurie? Non ti fidi di palmizi vari, leoni, orsi e altre bestie? Non ti fidi dello zio Oscar?
Non è che non mi fido: è che “Barry Lyndon” non vinse come miglior film né come miglior regia; è che “2001 – Odissea nello spazio” vinse solo l’Oscar per gli effetti visivi (!); è che Stanley Kubrick e Alfred Hitchcock (tanto per dire) non hanno mai vinto l’Oscar per la regia; è che nel 1976 “Rocky” batté “Taxi Driver” (non so se mi spiego)… E potrei continuare a lungo, credetemi! Vogliamo parlare dei NOVE Oscar del “Paziente inglese”, terrificante polpettone del povero Anthony Minghella, pace all’anima sua…? O delle varie assurdità tipo scindere il premio al Miglior Film da quello al Miglior Regista?
Insomma, i premi non sono tutto, anzi…! A volte vanno davvero guardati con sospetto. Ciò detto, “Parasite” è un cattivo film? No, non direi. Storia – ben raccontata – di una famiglia dei bassifondi di Seoul che si “infiltra” nei quartieri alti con astuzie e inganni, il film nasce come squisita black comedy, un genere spesso sottovalutato ma capace di regalare grandi emozioni (uno dei più fulgidi esempi è “La guerra dei Roses”, gioiellino firmato da Danny De Vito!). E per un po’ regge molto bene, forte di una sceneggiatura a prova di bomba e di attori indubbiamente in parte. Il problema è il “twist” a metà film, che di fatto… fa iniziare un altro film! Il colpo di scena, in questo caso, non serviva: le tensioni che covavano nell’aria, la terribile messa in scena della sperequazione sociale coreana (ma più estesamente mondiale) e il viluppo di inganni e cattiverie poteva benissimo deflagrare per conto proprio in un finale scoppiettante, sempre nell’alveo della black comedy. Invece il regista e sceneggiatore sceglie la via più banale, quella della “bassa macelleria”, quella dell’esplosione della violenza, come se la lotta di classe si potesse raccontare solo con coltelli e sassate. Laddove, invece, era stato veramente bravo a raccontarla con più finezza per tutta la prima parte del film!
Ora: lungi da me fare critica contenutistica. Ciascuno è libero di filmare ciò che vuole, e non è che nella seconda parte del film manchino i bei momenti di cinema, anche grazie a una location straordinaria – la villa moderna in cui è ambientato l’80% del film. Però è come se il sottile, inquietante e importante discorso svolto dalla prima parte, vera messa in scena di una scalata sociale tutta basata sull’inganno ma anche sull’intelligenza e sull’intraprendenza (del tutto assenti invece nella famiglia altolocata, che pare completamente seduta sulla propria incredibile ricchezza), venisse smentita dalla seconda parte, che è un recupero dei più bassi istinti di rivalità sociale e personale. Se nella prima parte qualche eccesso di senso e di recitazione ci poteva stare, giustificato proprio dal tono di black comedy del film, nella seconda parte tutto appare sforzato e ideologico, come se si dovesse pervenire a una conclusione e questa fosse l’inevitabile violenza, solo in parte riscattata da un finale onirico e ipotetico che – crudelmente, ma correttamente – rilancia il tema-chiave della scalata sociale, del sogno della ricchezza e del benessere, aspirazioni di qualunque essere umano negate dall’intrinseca sperequazione del mondo capitalista spinto all’eccesso e fuso, come nel caso della Corea del Sud, con la mentalità confuciana del lavoro prima di tutto. La famiglia di sfaccendati sottoproletari messa dal regista al centro del film solo apparentemente smentisce questo modello sociale, perché se da una parte è vero che padre, madre e due figli vivono in un seminterrato infestato da scarafaggi e sembrano quasi fatalisticamente rassegnati alla loro povertà, è altrettanto vero che ai figli non mancano intelligenza e ambizioni (vorrebbero fare l’Università, ma il rigido sistema coreano li respinge) e ai genitori non mancano complicità e umanità, che il regista decide di tratteggiare con brevi parentesi liete e commediali. Insomma – ed è il tratto più inquietante e interessante di “Parasite” – non ci sono “cattivi”, in questo film: solo persone affamate e persone piene di ogni ben di Dio, persone che non hanno nulla e persone che hanno troppo, attorno alle quali ruota un microcosmo di bugie e inganni il cui unico scopo è quello di creare un minimo di ridistribuzione della ricchezza, un minimo di giustizia sociale.
Ma, a fare da contraltare a questa visione tutto sommato accettabile dell’agire truffaldino dei protagonisti (in fondo, vien da pensare, che male fanno? Loro non hanno nulla, gli altri tutto!) è lo scivolare sempre più veloce della povera famiglia disagiata sul piano inclinato delle occasioni e dell’inganno, che ci racconta un mondo di lupi travestiti da agnelli, un mondo in cui la vera lotta non è di poveri contro ricchi, ma di poveri contro altri poveri (i precedenti dipendenti della famiglia Park vengono fatti licenziare con l’inganno), mentre quello dei ricchi, lungi dall’essere il mondo da distruggere, è solo il campo di gioco di questa terribile partita. Infatti, e qui torniamo all’inizio, la parte migliore di “Parasite” è proprio quella “ludica”, quella in cui l’infiltrazione è vista come un gioco d’astuzia e di scaltrezza. E l’apparente innocuità, anzi, la propositività dei giovani “intrusi”, che si rendono indispensabili alla famiglia, è quanto di più mefistofelico il film riesca a raccontare, prima di abbandonarsi al macello sacrificale di cui non si sentiva il bisogno e a un finale simbolico, ma grazie a Dio non spinto all’eccesso. Resta da chiedersi: chi sono, alla fine, i parassiti? Chi si infiltra o chi possiede talmente tanto (in termini di denaro e beni materiali) da aver perso ogni orizzonte realistico, ogni capacità di valutare fatti e persone?
E “Parasite” è un buon film o è a sua volta un parassita alla tavola dei grandi? Beh, che dire: Oscar, Palme, Carciofi, Pini Mughi d’Oro…? Ma sì, va bene tutto: in fondo, se c’è qualcosa di parassitario, nel mondo del cinema, sono proprio i Premi!
GIUDIZIO SINTETICO: **½
LEGENDA RECENSIONI
Sia per i libri che per i film, adotto nel giudizio sintetico il “sistema Mereghetti”, che va da 0 a 4 “stelline”: a 0, ovviamente, i giudizi più negativi, a 4 quelli più positivi, con tutti i possibili gradi intermedi…